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Lessico delle scienze politiche, sociali e internazionali

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Lessico delle scienze politiche

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Anno accademico: 2019/2020
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Università degli Studi di Torino

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Il mercato

Che cosa si intende con la parola “mercato”? Si tratta del luogo - fisico o virtuale - in cui si incontrano le persone che desiderano vendere o acquistare beni o servizi. L’insieme dei venditori costituisce il cosiddetto lato dell’offerta, mentre quello dei compratori il cosiddetto lato della domanda. A seconda della quantità di beni offerti sul mercato, i potenziali acquirenti saranno disposti ad acquistare una quantità del bene che è tanto minore quanto maggiore è il prezzo a cui viene venduto, mentre i venditori saranno tanto più propensi ad aumentare la quantità offerta quanto maggiore è il prezzo. Quest’ultimo è determinato dall’incontro tra domanda e offerta nel mercato: si tratta del prezzo al quale venditori e acquirenti sono disposti a vendere/comprare la stessa quantità. Il mercato può essere caratterizzato da tante imprese (concorrenza perfetta), da poche imprese (oligopolio) o da un’unica impresa (monopolio) che producono lo stesso bene. Queste diverse situazioni vengono chiamate “regimi di mercato”. A seconda del regime in cui opera, il mercato produce risultati diversi in termini di prezzi e quantità scambiate: in particolare, la concorrenza perfetta permette ai consumatori di reperire la massima quantità possibile di un bene, al prezzo più basso possibile (ovvero il prezzo che permette ai produttori di pareggiare i costi, senza incorrere in una perdita). Il monopolio, invece, costituisce la situazione peggiore per il consumatore: in questo caso il produttore è infatti in grado di fissare il prezzo più alto possibile, che gli permette di vendere una quantità di beni che rende massimo il suo profitto. In questa situazione i consumatori trovano sul mercato poche unità del bene, che devono pagare a un prezzo molto più elevato di quello di concorrenza perfetta. Il mercato non è solo un luogo teorico: nella nostra esperienza di vita quotidiana, ogni volta che acquistiamo o vendiamo un bene o un servizio, la nostra transazione avviene su un mercato, virtuale (come ebay) o fisico (come quello ortofrutticolo). In questi casi, di solito ci troviamo di fronte a una situazione intermedia tra la concorrenza perfetta e il monopolio: infatti le diverse bancarelle offrono prodotti molto simili (ma non identici, perché differiscono ad esempio per la provenienza geografica o per grado di maturazione) a prezzi un po’ diversi tra loro. In questo caso, consumatori diversi possono, scegliendo di pagare prezzi leggermente differenti, acquistare il bene con le caratteristiche (di maturazione, provenienza ecc.) che preferiscono. In entrambi i casi, due fattori sono indispensabili affinché il mercato funzioni bene. Infatti, sia i compratori sia i venditori preferiranno negoziare con una controparte che gode di buona reputazione (cioè è noto per essere onesto e affidabile); questa è la ragione per cui mercati virtuali come eBay chiedono a compratori e venditori di lasciare un

feedback successivamente alla conclusione della transazione. In altri casi, ad esempio quando offerente e acquirente entrano sul mercato per la prima volta, il soggetto non gode di alcuna reputazione, né buona, né cattiva, ma riesce lo stesso a effettuare il primo scambio sul mercato. In questi casi, è la cosiddetta “fiducia generalizzata” (ovvero la fiducia che si ripone in una persona che non si conosce) a giocare un ruolo fondamentale per permettere ai nuovi entranti sul mercato di poter negoziare. Tutti questi fenomeni sono il campo della scienza economica. La scienza economica si occupa di studiare le forme di mercato, e di proporre incentivi e norme che conducano il mercato verso un regime sempre più simile a quello di concorrenza perfetta. Accanto a questo approccio “tradizionale”, si sono recentemente affiancati filoni di ricerca che cercano di spiegare il comportamento degli agenti economici, che spesso appaiono “irrazionali” se confrontati con la teoria tradizionale. L’inclusione di concetti come “fiducia”, “reputazione”, “altruismo”, “dono”, ecc. all’interno della teoria economica ha aiutato gli economisti a tracciare teorie che meglio si adattano alla realtà osservata e che permettono di andare verso politiche volte a migliorare sempre di più il benessere degli individui.

In queste pagine scritte nel 1944 e dunque nel pieno del secondo conflitto mondiale, Luigi Einaudi – economista e futuro presidente della repubblica (dal 1948 al 1955) – illustra il significato della nozione di “mercato”. Fa riferimento a casi concreti: le vigne, i mercati rionali, la borsa valori (allora non ancora centralizzata a Milano ma diffusa in vari edifici nelle principali città italiane). Soprattutto, fa riferimento costante a un elemento chiave: la volontà degli attori, la loro consapevolezza (spesso implicita) delle “regole del gioco”, e dunque la loro essenziale libertà. Che è innanzitutto libertà di tirarsi indietro, qualora nel mercato, per qualsiasi ragione, non siano convinti della convenienza o della bontà di uno scambio.

L. Einaudi: «Che cos’è il mercato?»

dipinto fiammingo con mietitura

Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera? In mezzo al chiasso dei ragazzi, alle gomitate dei contadini e delle contadine le quali vogliono avvicinarsi al banco dove sono le stoffe, i vestiti, le scarpe ecc. da osservare, confrontare, toccare con mano ed alle grida dei venditori, i quali vi vogliono persuadere che la loro roba è la migliore di tutte, la sola che fa una gran bella figura quando l'avete addosso, la sola che vi farà prima infastidire voi di portarla che essa di essere frustata, quella che è un vero regalo in confronto al poco denaro che dovete spendere per acquistarla? Quella fiera è un mercato, ossia un luogo dove, a giorno fisso e noto per gran cerchia

lontane ed urlano anch'esse parole incomprensibili. Ragazzi, fattorini e commessi corrono incessantemente tra il gruppo della gente silenziosa o vociferante e certe cabine poste lungo le pareti del salone e che voi scoprite essere cabine telefoniche e portano avanti e indietro messaggi verbali o rapidamente tracciati a matita su pezzi di carta. Anche quello è un mercato. Non vi si vedono le merci negoziate; perché per comprare e per vendere non è sempre necessario, come si fa sulle fiere e nelle botteghe, vedere e toccare con mano la merce. Nelle borse si vendono titoli di stato, azioni di società anonime, obbligazioni di comuni o di istituti di credito fondiario, ossia pezzi di carta aventi un valore più o meno alto ma tutti uguali, quelli della stessa specie, gli uni agli altri. Non è necessario vedere e toccare, perché il venditore non può consegnare, quando sia giunto il momento di eseguire il contratto, se non quel preciso pezzo di carta con su scritte quelle certe parole e non altro. Ci sono borse nelle quali, invece che pezzi di carta, si negoziano derrate e merci; frumento, granoturco, seta, lana, cotone, argento, rame, stagno, zinco, piombo, ghisa ecc. ecc. Qui parrebbe necessario vedere e toccare; ma sarebbe un grosso imbroglio per centinaia e migliaia di venditori arrivare in borsa ciascuno con un grosso carico, anche se si tratti di minuscoli campioni da distribuire ai compratori in pegno della qualità della merce che dovrà essere consegnata. I campioni ci sono; ma sono "ideali" e sono già fissati dai regolamenti della borsa. Ad esempio, quando si negozia frumento, compratori e venditori si riferiscono tacitamente ad un certo tipo o ad un certo altro tipo di frumento, d'inverno o di primavera, duro o tenero, di un certo peso specifico, per es. 78 kg per hl, con un certo grado di impurità, ovvero sia di materie estranee, supponiamo l'1 percento. Quello è il frumento che si contratta e che deve essere consegnato al prezzo convenuto. Si capisce che non sempre si potrà consegnare frumento di quella precisissima qualità. Forse il peso specifico sarà di kg 78,30, ovvero di 77,50 invece dei convenuti 78; ovvero le impurità saranno del 2 o del 0,50% invece che dell'1 percento. Ma il regolamento della borsa, conosciuto da tutti preventivamente, stabilisce già quali aumenti o quali diminuzioni percentuali si debbano apportare al prezzo convenuto se la qualità effettiva è alquanto migliore o peggiore di quella "tipo".

Si potrebbe continuare negli esempi; ma ormai pare abbastanza chiaro che cosa sia un mercato. È un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori, desiderosi di acquistare o di vendere una o più merci. Invece di merci, si possono negoziare quelli che si chiamano "servigi". Alla mietitura o alla vendemmia, tutti sanno che di gran mattino, fra le quattro e le sei, su certe piazze del borgo convengono i mietitori e le vendemmiatrici che intendono andare ad opera a

servigio altrui e convengono altresì gli agricoltori i quali hanno il frumento in piedi da far mietere o le uve da staccare nella vigna. Nelle città il sistema è mutato un po' e ci sono gli uffici di collocamento, privati e pubblici, dove convengono datori di lavoro che hanno bisogno di operai ed operai che desiderano trovare lavoro. Il punto essenziale da tenere in mente è che il mercato è un luogo dove convengono "molti" compratori e "molti" venditori. Bisogna aggiungere subito alla parola "convengono" anche qualche altra parola: è un luogo dal quale compratori e venditori possono "uscire" quando ad essi non convenga stipulare il contratto. Se ad es., il mietitore o la vendemmiatrice giunti sul mercato fossero presi per il collo, per modo di dire, dal carabiniere o costretti ad andare a lavorare a mietere per 30 lire al giorno quando il prezzo di mercato è 50; o a vendemmiare per 10 lire invece che per 20, quello non sarebbe più un mercato, ma uno strumento di "schiavitù". Qui vogliamo spiegare che cosa sia un mercato e non che cosa furono in passato, o possono essere al presente in certi paesi, gli ergastoli degli schiavi. Parimenti, quando si tratta di merci, perché ci sia un vero mercato, occorre che il venditore possa rifiutarsi a vendere o il compratore possa rifiutarsi di comprare senza troppo grave suo danno. Certo, è sempre meglio, se conviene, vendere o comprare subito invece che aspettare; ma, entro certi limiti, l'aspettare può essere conveniente. Perché ci sia vero mercato, occorre però che le due parti siano libere di non mettersi d'accordo. Se il venditore dispone di una merce ingombrante e pesantissima che costerebbe l'ira di Dio a ritrasportare in magazzino, o di frutta o verdura che, se non è venduta subito, marcisce, non è che il mercato non ci sia più. Esso esiste sempre; ma comporta per una delle parti alcuni rischi di cui conviene tener conto preventivamente se non si vuole essere presi per il collo dall'altra parte.

(da: L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, Torino, Einaudi 1944 [1975]).

Sviluppo

In biologia, così come nel linguaggio comune, il termine sviluppo descrive il processo evolutivo di un organismo verso la sua forma naturale e completa. L’adozione della metafora biologica ai fenomeni sociali ha segnato la progressiva convergenza dei significati dei concetti di crescita, sviluppo e progresso. L’appropriazione delle teorie di Darwin da parte delle scienze sociali introdusse l’idea ottimistica di un’evoluzione della società verso forme sempre più perfette lungo un cammino tortuoso, segnato

In questa visione una netta linea di divisione pare separare il mondo indigeno, della tradizione e del sottosviluppo, da tutto ciò che si configura, al contrario, come ‘sviluppato’ e occidentale’. Il problema dello sviluppo alla scala globale è pertanto considerato come una versione generale di questa dicotomia: cuore del problema è avvicinare le strutture sociali ed economiche dei paesi ‘in via di sviluppo’ a quelle occidentali. In altre parole, il sottosviluppo rappresenta uno stadio iniziale rispetto al quale le società occidentali hanno già saputo progredire. Compito morale dei paesi sviluppati sarebbe quindi quello di assistere, con la propria esperienza, il progresso delle altre società verso il modello moderno di capitalismo e democrazia liberale, da cui deriva un atteggiamento ‘paternalistico’ verso i paesi non occidentali.

Nel corso del tempo si è assistito a un’esplosione di visioni e approcci teorici differenti tesi a superare le rigidità e i molti limiti delle teorizzazioni di sviluppo ora descritte. La critica all’idea stessa di sviluppo (perlomeno nella sua accezione più tradizionale, ossia quella delle ideologie del dopoguerra) viene sovente ricondotta al dibattito sul cosiddetto post-sviluppo.

Il post-sviluppo si riconnette esplicitamente alla corrente di pensiero denominata post-strutturalismo, la quale implica una critica radicale alle dimensioni ontologiche, epistemologiche e etiche sulle quali si basa il discorso sullo sviluppo economico (ovvero il modo in cui accademici, giornali, libri, media parlano del problema dello sviluppo). Questo “discorso” si tradurrebbe, prima ancora che in forme materiali di dominazione economica e politica, in condizionamenti culturali profondi e per questo ancora più insidiosi.

Il discorso sullo sviluppo, per esempio, contribuisce a diffondere un’interpretazione del mondo suddiviso in nazioni arretrate e avanzate, finendo per influire sul modo con il quale le persone, a Nord come al Sud del mondo, vedono e interpretano se stesse. Tale rappresentazione rafforza il potere di subordinazione e di controllo che i paesi occidentali esercitano sui paesi del Sud globale. Questa subordinazione, quindi, non si esercita soltanto attraverso forme materiali di controllo politico, economico e giuridico (quali quelle tipiche del periodo coloniale: vedi su questo il video “colonialismo”!) – ma anche attraverso modalità implicite, immateriali, culturali, anche dette post-coloniali.

La teoria post-sviluppo implica quindi un approccio critico al tema dello sviluppo, che mira in primo luogo a ricostruire la genealogia (ovvero la storia) dei sistemi di significato e dei rapporti di potere/sapere sulle quali si basa, e in secondo luogo a individuare gli effetti culturali, oltre che economici, sociali e politici, del discorso dominante o egemonico.

dipinto con beduini, 1867

Il lavoro più significativo in questo quadro è costituito dalla critica culturale portata avanti da Edward Said nel 1978 nel suo libro Orientalismo, vera e propria pietra miliare nel dibattito. Attraverso la sua analisi dei discorsi popolari e dei prodotti culturali come cinema e letteratura riguardanti l’Oriente, l’autore palestinese ha esplicitato le ‘geografie immaginarie’ prodotte dagli occidentali: le idee di un Oriente esotico, selvaggio, pericoloso, arretrato, non civilizzato o implicitamente ‘diverso’ non sono altro che il frutto del punto di vista occidentale, in gran parte eredità di una tradizione coloniale che posiziona l’Oriente in una posizione di inferiorità e subalternità rispetto all’Occidente.

Costruzioni di significato come questa dell’”Oriente” hanno un’importante valenza politica. A questo proposito, il lavoro forse più celebre è stato elaborato da Arturo Escobar, il quale nel suo libro del 1995 Encountering Development discute di come anche il ‘Terzo Mondo’ e il ‘problema della fame’ siano stati ‘inventati’ in una ben precisa prospettiva geopolitica e geoeconomica.

Spazio

Buongiorno a tutti, questa breve presentazione intende introdurre al concetto di spazio.

Il concetto di spazio è particolarmente rilevante nelle scienze sociali, tanto che da alcuni anni a questa parte si parla di uno spatial turn, una rivoluzione spaziale, che segnala il progressivo avvicinarsi di molte discipline all’interesse per lo spazio. Questo perché i fenomeni che noi studiamo non prendono forma in una dimensione astratta o sulla punta di uno spillo, ma concretamente assumono forme spaziali differenti, per esempio concentrandosi in alcuni luoghi e non in altri, o privilegiando determinati luoghi e non altri. Questo per esempio è molto visibile rispetto ai fenomeni economici: i flussi di capitali, gli investimenti e il denaro tendono a concentrarsi in determinati spazi e non in altri, le attività di impresa tendono a prendere forma in determinati spazi e non in altri.

È bene sottolineare come nelle scienze sociali utilizziamo alcuni termini intendendo sfumature di significati abbastanza precise: spazio, luogo, territorio, paesaggio significano cose leggermente differenti. In questa presentazione, però, utilizziamo il termine più ampio e generale: spazio. Con spazio non intendiamo naturalmente solo

Con globalizzazione si intende, in generale, la diffusione su scala mondiale di fenomeni economici, culturali, sociali e ideologici. Si tratta di un sistema basato sull’interdipendenza, nel senso che determinati mutamenti che si verificano in una certa parte del pianeta hanno rapide ripercussioni in altre zone. Dapprima utilizzato nel campo della psicologia dell’età evolutiva, il termine si è diffuso nelle scienze sociali a partire dagli anni Ottanta-Novanta del Novecento e ha assunto significati diversi nei differenti contesti e anche nelle varie discipline (il 1989, con la caduta del muro di Berlino e la fine del bipolarismo USA-URSS, ha rappresentato un momento di svolta).

Dal punto di vista economico, la globalizzazione fa riferimento alla creazione di un mercato mondiale grazie all’ampliamento degli scambi commerciali e finanziari. A livello politico, il termine indica il moltiplicarsi e il rafforzarsi delle istituzioni internazionali e sovranazionali e il processo di erosione della sovranità degli Stati nazionali. In campo socioculturale, la globalizzazione riguarda gli stili di vita e i consumi (dalla musica al cibo), che per molti aspetti sono diffusi sempre più uniformemente nelle varie parti del mondo: per esempio, se voglio mangiare indiano, vado nel ristorante sotto casa; non è necessario andare in India. Gli studiosi di comunicazione, dal canto loro, insistono sui mutamenti intervenuti negli ultimi decenni in seguito all’introduzione di internet, che ha comportato una rivoluzione pari a quella che si era verificata, nella seconda metà del Quattrocento, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Grazie a smartphones, social media, skype, internet, viaggi low cost ecc., avere e mantenere contatti con persone che vivono in altri parti del mondo diventa sempre più facile.

“Globalizzazione”, dunque, è un concetto chiave nel lessico delle scienze sociali, politiche e internazionali e si presta a letture interdisciplinari. È un concetto così centrale che talvolta se ne abusa, soprattutto quando si individua nella globalizzazione la causa di tutti i mali del mondo contemporaneo oppure, all’opposto, la soluzione a tutti questi mali.

I pro e i contro Da un lato nel mondo globale le distanze tra gli uomini si sono accorciate (anche in senso propriamente fisico, grazie all’accelerazione dei trasporti), dall’altro non sono pochi i problemi legati alla globalizzazione, a partire dalle diseguaglianze economiche tra gli uomini e le donne che vivono nelle varie parti del pianeta.

Un fenomeno di lunga durata La globalizzazione non è una novità assoluta del mondo contemporaneo. Tra le varie questioni di cui gli studiosi dibattono, una

riguarda proprio le origini della globalizzazione. Posto che relazioni tra le varie parti della Terra sono esistite fin dall’antichità più remota (basti pensare al popolamento del pianeta da parte degli uomini), alcuni storici considerano la globalizzazione un processo di lungo periodo che avrebbe preso avvio dal XV secolo, cioè all’inizio dell’età moderna (ossia il periodo compreso tra la conquista dell’America, 1492, e la Rivoluzione francese, 1789); altri lo collocano nel corso dell’Ottocento; altri ancora nell’ultimo trentennio. È chiaro che la risposta dipende dai fattori presi in considerazione.

Se si fa riferimento alla rivoluzione tecnologica legata a internet, si tratta di un fenomeno recente. Se, invece, si usa il concetto con attenzione alla dimensione economico-sociale e culturale, si tratta di un fenomeno di lunga durata, che può essere compreso ripercorrendo i secoli dell’età moderna e di quella contemporanea.

Mappa che rappresenta le principali rotte della tratta degli schiavi tra il XV e il XIX secolo

(la mappa mostra le principali rotte del commercio degli schiavi: si noti il coinvolgimento delle coste dell'Europa occidentale, dell'Africa occidentale, del Sud America e, in misura minore, del Nord America e delle coste sull'Oceano indiano).

A partire dal Quattrocento e nel corso dei secoli dell’età moderna (XV-XVIII) la natura degli scambi internazionali cambiò profondamente. Si cominciò a commerciare merci di varia natura su lunghe distanze. Tra queste merci, anche quella umana. Parallelamente all’avvio del colonialismo, si organizzò infatti, tra le coste dell’Europa occidentale, quelle africane e quelle americane, il commercio (o tratta) degli schiavi (questa pratica è indicata nelle varie lingue europee con i termini atlantic slave trade, comercio de negros, traite des noirs o traite négrière). La schiavitù atlantica (così la si definisce tenendo conto dell’Oceano coinvolto) era legata all’economia di piantagione (un’unità economica diretta dal proprietario della terra e degli schiavi e basata su monocolture quali canna da zucchero, tabacco, caffè, cacao, cotone) e fu sperimentata dapprima in Europa e nelle isole dell’Africa occidentale per poi consolidarsi nelle Americhe nel corso del Seicento. Questo commercio, che coinvolse milioni di neri africani (le cifre oscillano tra i 10 e i 15 milioni), durò in vari paesi fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando in tempi diversi, se ne decretò l’abolizione, senza però eliminare una pratica che è continuata a lungo (e continua) in modo clandestino.

«Considerando l’ampio coinvolgimento nella tratta degli schiavi da parte delle potenze europee (nel Settecento le colonie caraibiche inglesi e francesi furono tra i più importanti centri dell’economia mondiale), sembrerebbe scontato concluderne che essa dovette rappresentare un commercio decisamente lucroso. Non si spiegherebbe altrimenti la sua lunga durata né [...] la difficile lotta per la sua abolizione, decretata nei vari paesi europei tra la fine del Settecento e l’Ottocento, [...]. Se, in generale, la storiografia di ispirazione marxista non mostra dubbi al riguardo, negli ultimi decenni la relazione fra tratta, schiavitù e sviluppo economico è stata invece – e continua a essere – al centro di un vivace dibattito storiografico in merito all’effettiva redditività. In quale misura tratta e schiavitù rappresentarono la base dello sviluppo economico occidentale e, più precisamente, in quale misura i ricavati finanziarono il decollo industriale dell’Occidente, avviato nel secondo Settecento a partire dalla Gran Bretagna? Per rispondere a queste domande occorre prendere le distanze dalle posizioni estreme volte a dimostrare, da un lato, che tratta e schiavitù ebbero poco o nulla a che fare con quei mutamenti economici e, dall’altro, che esse siano state il fattore determinante del take off. Bisogna intanto riflettere sui dati cui ci si appella nei due casi: nel primo si considerano soprattutto le percentuali medie di profitto che, oscillando tra il 5% e il 10%, non appaiono particolarmente elevate; nel secondo caso si esaminano invece i singoli viaggi, che dimostrano variazioni enormi, dalla perdita totale del carico a guadagni che potevano raggiungere il 100%, quando non il 150%. Insomma, le medie erano basse, ma esse erano il frutto di fluttuazioni notevoli. Del resto [...], proprio la possibilità di alti profitti, al di là del carattere aleatorio della tratta, assai diversa da commerci ben più sicuri in quanto a stabilità degli introiti, ne costituiva la principale attrattiva. Tentando una sintesi, si può affermare che tratta e schiavitù furono tra i fattori dello sviluppo economico occidentale: esse contribuiscono a spiegare [la cosiddetta] fase dell’accumulazione originaria del capitale, che sarebbe poi stato investito nella rivoluzione industriale. Fattore importante, ma non certo l’unico, perché intrecciato ad altri fenomeni che caratterizzarono l’Europa moderna: tra questi, l’arrivo dell’argento e dell’oro americani nell’Europa del Cinquecento, la confisca delle terre appartenenti a ordini religiosi nel corso della Riforma anglicana all’inizio dello stesso secolo, il successivo processo di privatizzazione delle terre comuni avviato in Inghilterra attraverso il fenomeno delle recinzioni (enclosures), che costituì la base della fondamentale rivoluzione agraria in direzione dello sviluppo di un’agricoltura capitalistica, e, ancora, per la Francia del 1789, la vendita dei beni nazionali, oltre alle entrate garantite agli Stati europei da altri commerci, come quello delle spezie».

Tra chi guadagnò di più dalla tratta vi furono senza dubbio gli armatori delle navi: basti vedere ancora oggi la bellezza delle loro case nei porti francesi di Nantes,

Bordeaux e Saint-Malo. Allo stesso modo si arricchirono i grandi commercianti, appartenenti alle élites europee sia borghesi sia aristocratiche, e i proprietari terrieri coloniali nei caraibi. Ma la tratta coinvolgeva tantissimi altri partecipanti: una sola nave richiedeva competenze diversissime, dal bottaio per i rifornimenti d’acqua al chirurgo, sempre a bordo (per non parlare del coinvolgimento delle banche che finanziavano le imprese). È dunque difficile capire in pieno l’impatto che la tratta ebbe realmente sull’arricchimento dell’Europa moderna.

Certo, la tratta non garantiva ricavi sicuri. L’attraversamento dell’Atlantico dall’Africa all’America (chiamato middle passage) durava oltre due mesi e comportava altissimi tassi di mortalità, tanto per gli schiavi quanto per i membri dell’equipaggio (spesso malati di scorbuto, causato dalla mancanza di vitamina C: a bordo si mangiavano solo legumi secchi, riso, mais e manioca, e nessun cibo fresco). Inoltre, erano frequenti le rivolte degli schiavi.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il flusso di schiavi aumentò, invece di diminuire, con il passare dei secoli, e raggiunse il suo massimo nel Settecento e addirittura ancora per tutto l’Ottocento. Gli storici dibattono da molto tempo sul numero complessivo di schiavi trasportati dall’Africa all’America: le stime oscillano tra gli 11 e i 17 milioni di neri. Si tratta comunque certamente di uno dei più grandi spostamenti forzati di esseri umani della storia: una vera e propria «deportazione di massa».

Il flusso di denaro proveniente dalla tratta favorì fortemente l’industrializzazione britannica. Il rapporto spesso era diretto: ad esempio gli Hibberts, proprietari di un’importantissima ditta di tessuti a Manchester, possedevano anche piantagioni schiavili di canna da zucchero in Giamaica (e casi simili erano molti). Altrettanto si può dire per le assicurazioni: la Lloyd’s, tutt’oggi attiva, era inizialmente un caffè londinese dove si incontravano uomini d’affari coinvolti nel commercio negriero, e una storia simile caratterizza la banca Barclays, anch’essa oggi ancora attiva. Più in generale, il mercato coloniale era importantissimo per smerciare i prodotti della prima industria inglese: chiodi, prodotti di ferro. Insomma: la tratta degli schiavi produsse una parte del capitale poi reinvestito nell’industria inglese, e va dunque considerata un aspetto importante nella storia del capitalismo occidentale.

Ben diversi, ovviamente, furono gli effetti della tratta in Africa. Milioni di maschi giovani e attivi furono sottratti alle loro comunità, con effetti pessimi per la coltivazione delle terre e dell’equilibrio tra lavoro maschile e lavoro femminile, sbilanciato a svantaggio di queste ultime. Anche se gli storici discutono sull’impatto esatto della tratta sulle attuali condizioni di sottosviluppo delle zone africane

Per comprendere con più precisione la storia del colonialismo moderno, occorre dunque completare la formula fondamentale di Curtin con altri tre elementi:

  1. in primo luogo, il colonialismo non è una relazione qualsiasi di dominazione, come quella tra padrone e schiavo, ma un rapporto in cui una società intera A) è privata del proprio sviluppo storico ed è B) governata da stranieri in funzione dei bisogni e degli interessi di questi ultimi. Anche se nella maggior parte dei casi ai colonizzatori sono mancati i mezzi e gli strumenti per realizzare pienamente un obiettivo così ambizioso; in termini generali possiamo affermare che il colonialismo moderno si basa sulla volontà di mettere alcune società considerate periferiche al servizio delle metropoli, spesso europee;

  2. in secondo luogo, essenziale al colonialismo è il modo in cui colonizzatori e colonizzati restano estranei gli uni agli altri. Il rifiuto volontario dei primi di andare incontro alla cultura delle società che hanno sottomesso è una tipica caratterista del colonialismo moderno. In nessun luogo, l’espansione coloniale ha dato luogo a una sintesi di tipo “ellenistico”, ossia a una vera e propria fusione di culture diverse. Nella maggior parte dei casi, si è imposto al contrario un modello di acculturazione, in base al quale i colonizzati avrebbero dovuto adottare i valori e i costumi delle metropoli (ovvero della nazione colonizzatrice). L’impossibilità di un avvicinamento tra le due culture è stata giustificata, nel corso del XIX secolo, con l’esistenza di gerarchie “razziali” ritenute insormontabili;

  3. infine, il colonialismo moderno non è solo una relazione di dominazione che riguarda le strutture sociali e culturali, ma è al tempo stesso un’interpretazione speficica del rapporto di dominazione. A partire dai teorici iberici e inglesi del XVI secolo, l’espansione coloniale europea è stata giustificata, e anzi glorificata, come la realizzazione di una vera e propria missione universale: era parte del piano divino di salvezza, e al tempo stesso portava a compimento il mandato laico della civilizzazione di “barbari” e “selvaggi”. Questa interpretazione dell’impresa colonizzatrice si fondava sulla convinzione che la cultura dei colonizzatori godesse di un’indiscussa supremazia culturale. Gli europei non sono stati gli unici a servirsi di questo tipo di retorica: anche il colonialismo statunitense, quello giapponese o cinese si sono basati su tale ideologia. Ne consegue che per definire il colonialismo non è sufficiente avere una dipendenza coloniale di tipo strutturale, ma occorre considerare anche lo spirito colonialista che lo anima.

Come si è detto, “colonia” e “colonialismo” non sono sinonimi. Sono esistite “colonie” senza “colonialismo”, ovvero senza dominazione: ad esempio la colonia di

Selinunte, in Sicilia, fondata dai Greci in un territorio precedentemente disabitato. Ma allo stesso modo può esistere un colonialismo senza colonie: ovvero delle situazioni in cui la relazione di dipendenza coloniale non è stabilita tra un metropoli e una colonia lontana nello spazio, ma tra dei centri dominati e delle periferie dipendenti che si situano all’interno degli stati nazionali o degli imperi. Per definire questo tipo di esperienze è stata coniata l’espressione di “colonialismo interno”, che ha come esempio emblematico la relazione che si è sviluppata nel corso dei secoli tra l’Inghilterra e la periferia celtica delle isole britanniche (Galles, Scozia, Irlanda).

Ordine internazionale

L’ordine internazionale, questione della quale per decenni si sono occupati quasi esclusivamente gli studiosi, è oggi al centro di un vivace dibattito che occupa le prime pagine dei giornali e dunque coinvolge ormai l’opinione pubblica informata in Italia e all’estero. L’impressione condivisa dai commentatori è che la sua evoluzione potrebbe avere un impatto importante sulla politica mondiale, influenzando il futuro della cooperazione e del conflitto.

Ciascuno di noi avrà sentito parlare di recente almeno una volta – dai media occidentali quasi certamente con qualche preoccupazione – del nuovo mondo multipolare che potrebbe rimpiazzare l’ordine a guida americana nato nel 1945 e globalizzatosi dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1989.

L’ascesa di alcuni paesi, innanzitutto la Cina, ma anche gli altri emergenti come l’India o la Russia, segnala infatti un significativo cambiamento nella mappa del potere a livello globale, che potrebbe comportare una crisi e magari un cambiamento dell’ordine.

Regole e istituzioni che gli stati fissano per aiutarsi a raggiungere alcuni obiettivi condivisi – mantenere la pace e favorire il progresso dell’umanità – riflettono princìpi specifici, a loro volta legati ai paesi egemoni in un certo periodo. Quelli attuali si sono fissati soprattutto sulla base dell’ordine internazionale formatosi dal 1945.

Dopo il 1945 si è infatti consolidato un ordine internazionale con alcuni caratteri specifici, che si riflettono nelle organizzazioni internazionali in cui si è incarnato:

potenze non occidentali sono cresciute in un ordine che aveva nel frattempo accentuato i propri caratteri occidentali, esponendosi a contestazioni sia per la concentrazione del potere nelle mani degli Stati Uniti, che a tratti lo hanno esercitato in modo capriccioso – si pensi alla guerra mossa all’Iraq nel 2003 –, sia per le regole che riflettono principi che i paesi emergenti non sottoscrivono interamente.

In altre parole, la promozione di un ordine multipolare da parte dei paesi emergenti è oggi anche una battaglia politica per il riconoscimento di un maggior pluralismo nel sistema politico-economico internazionale.

Questi ultimi, e in particolare la Cina, oggi rivendicano dunque una riforma dell’ordine che ridimensioni il ruolo dell’America–, ma che cambi anche almeno in parte le regole e le organizzazioni internazionali, dando maggior peso alle esigenze di sviluppo dei paesi emergenti e privilegiando il principio di sovranità rispetto, ad esempio, alla protezione dei diritti umani.

La richiesta di un nuovo ordine multipolare pone ovviamente in questione il peso dell’Occidente nelle organizzazioni internazionali, e soprattutto in quelle incaricate di governare le questioni di maggiore rilievo globale: la protezione dell’ambiente e il mantenimento della pace.

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Che cosa si intende con la parola “mercato”? Si tratta del luogo - fisico o virtuale - in
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L’insieme dei venditori costituisce il cosiddetto lato dell’offerta, mentre quello dei
compratori il cosiddetto lato della domanda. A seconda della quantità di beni offerti
sul mercato, i potenziali acquirenti saranno disposti ad acquistare una quantità del
bene che è tanto minore quanto maggiore è il prezzo a cui viene venduto, mentre i
venditori saranno tanto più propensi ad aumentare la quantità offerta quanto
maggiore è il prezzo. Quest’ultimo è determinato dall’incontro tra domanda e offerta
nel mercato: si tratta del prezzo al quale venditori e acquirenti sono disposti a
vendere/comprare la stessa quantità. Il mercato può essere caratterizzato da tante
imprese (concorrenza perfetta), da poche imprese (oligopolio) o da un’unica impresa
(monopolio) che producono lo stesso bene. Queste diverse situazioni vengono
chiamate “regimi di mercato”. A seconda del regime in cui opera, il mercato produce
risultati diversi in termini di prezzi e quantità scambiate: in particolare, la
concorrenza perfetta permette ai consumatori di reperire la massima quantità
possibile di un bene, al prezzo più basso possibile (ovvero il prezzo che permette ai
produttori di pareggiare i costi, senza incorrere in una perdita). Il monopolio, invece,
costituisce la situazione peggiore per il consumatore: in questo caso il produttore è
infatti in grado di fissare il prezzo più alto possibile, che gli permette di vendere una
quantità di beni che rende massimo il suo profitto. In questa situazione i
consumatori trovano sul mercato poche unità del bene, che devono pagare a un
prezzo molto più elevato di quello di concorrenza perfetta. Il mercato non è solo un
luogo teorico: nella nostra esperienza di vita quotidiana, ogni volta che acquistiamo
o vendiamo un bene o un servizio, la nostra transazione avviene su un mercato,
virtuale (come ebay) o fisico (come quello ortofrutticolo). In questi casi, di solito ci
troviamo di fronte a una situazione intermedia tra la concorrenza perfetta e il
monopolio: infatti le diverse bancarelle offrono prodotti molto simili (ma non
identici, perché differiscono ad esempio per la provenienza geografica o per grado di
maturazione) a prezzi un po’ diversi tra loro. In questo caso, consumatori diversi
possono, scegliendo di pagare prezzi leggermente differenti, acquistare il bene con le
caratteristiche (di maturazione, provenienza ecc.) che preferiscono. In entrambi i
casi, due fattori sono indispensabili affinché il mercato funzioni bene. Infatti, sia i
compratori sia i venditori preferiranno negoziare con una controparte che gode di
buona reputazione (cioè è noto per essere onesto e affidabile); questa è la ragione
per cui mercati virtuali come eBay chiedono a compratori e venditori di lasciare un