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Interpretazione e progetto

Riassunto del libro "Interpretazione e progetto" di Salvatore Zingale.
Corso

Semiotica

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Interpretazione e progetto – Semiotica dell’inventiva (Salvatore

Zingale)

L’oggetto del progetto

Il pensiero semiotico affonda le sue radici nella medicina di Ippocrate e nell’arte della navigazione. In queste attività, e in altre che a esse possono essere ricondotte, il ruolo guida è svolto dalla capacità della mente di interpretare un fatto presente, un oggetto o un evento: i sintomi della malattia, la posizione delle stelle nel cielo. Si tratta di un sapere pratico. La medicina e la navigazione, così come la caccia o le tattiche di difesa, possono essere definite tecniche del trovare. Viviamo per trovare: una spiegazione, il significato e il senso delle cose, le connessioni fra un evento e l’altro, il superamento di un problema, una meta, la conclusione di un percorso fisico o mentale, uno scopo. Questo sapere pratico è stato chiamato dagli storici Jean Pierre Vernant e Marcel Detienne una “astuzia dell’intelligenza”. Nel pensiero mitico prendeva il nome di Metis, dea della saggezza e della ragione. Metis è l’avere il colpo d’occhio, l’abilità nel cogliere l’opportunità, è il saper pensare al di là del conosciuto. Anche il design è un sapere pratico; anche il design comporta un saper trovare, un saper creare, un saper interpretare. Anche il design muove dalla constatazione che viviamo in un mondo-problema, perché l’ambiente stesso è problema. Ciò vuol dire che il progettare coinvolge una duplice capacità interpretativa: da un lato occorre saper comprendere la natura del problema; dall’altro i modi e le forme per superarlo. La progettualità opera nello spazio di questo doppio sguardo: tra l’insoddisfazione e la ricerca del piacere. Questo doppio sguardo è quello che Peirce ha indicato nell’abduzione. Tutti gli artefatti, prima d’essere progettati, sono assenti e possibili: e siamo in grado di pensarli, è solo per via di abduzione. Abduzione vuol dire interpretazione: è il primo passo del processo conoscitivo, è la via logica che instrada ogni percorso interpretativo. L’abduzione ha uno sguardo oscillante, da un lato verso ciò che potrebbe essere accaduto (e in questo caso è più propriamente chiamata retroduzione), dall’altro verso ciò che potrebbe essere difficile. L’abduzione è anche la forma dell’inventiva, dove l’inventiva, nel design, è l’operazione mentale che prepara l’innovazione. L’inventiva è la facoltà di individuare i presupposti dell’innovazione. Per interpretazione non bisogna intendere la ricerca di un senso nascosto. È l’interpretazione così come risulta dalla semiotica di Pierce, dove uno dei concetti più innovativi e originali è quello di interpretante, imperniato sul principio secondo cui il significato di un segno, o di un testo, va cercato nell’insieme degli effetti e delle conseguenze che quel segno produce o potrebbe produrre. L’interpretazione è uno sguardo in avanti, vista mentale e proiettiva. Il ricorso alla semiotica di Peirce serve a provare la tenuta della teoria delle inferenze nella prassi dell’impresa progettuale. L’incidenza che le inferenze, e in particolare l’abduzione, hanno nella costruzione dei testi e degli artefatti, più che nella loro analisi o esegesi. L’attenzione della semiotica inferenziale è rivolta più all’oggetto del progetto (al problema che il progetto affronta) che non all’oggetto prodotto (all’artefatto che del problema è interpretante). È quindi un’attenzione orientata a cogliere il lavoro semiosico proprio del processo e del pensiero progettuale. Nella semiotica del progetto l’interpretazione non è solo l’attività attraverso cui si va alla ricerca del significato degli artefatti e dei prodotti. Il prodotto dell’interpretazione è, in quanto concetto formale, l’Interpretante dell’Oggetto. La questione che interessa il design è che cosa dovremo intendere con oggetto. Nel design l’oggetto del progetto è sempre il problema da cui esso prende avvio. Se non vi è un problema – fosse anche la distanza fra un desiderio e la sua realizzazione, o la sfida a generare effetti di sorpresa o di innovazione – senza l’esistenza di un qualsiasi problema non vi è design. Il design è interpretazione di problemi. Il design, inteso come necessità progettuale e come prefigurazione di ciò che potrebbe/dovrebbe essere, prima ancora che una tecnica è un’attività mentale inventiva. L’inventiva ha la sua forma logica e semiotica nell’abduzione, modalità del ragionare e del pensare che induce a cogliere ciò che è “concepibilmente possibile”. Il movimento abduttivo è interpretazione proiettiva: a partire da un evento permette di pervenire a un senso, seguendo nel suo movimento lo schema triadico della semiosi, dall’Oggetto all’Interpretante attraverso un atto di mediazione o implicazione logica. Il design non si esaurisce con il superamento del problema che affronta. Il design è amplificazione del senso delle cose attraverso la forma. È progetto di bellezza, fra arte e tecnica. Bellezza che però rischia di frantumarsi nel paradosso di Vilém Flusser (1993): il design come ostacolo alla rimozione di ostacoli, perché le soluzioni si presentano, come osservava Goethe, inevitabilmente come nuovi problemi. Il design è visto qui come un’estensione semantica del disegno, ossia come intenzione che tende verso un fine.

Dal disegno al design: viaggio intorno a una parola

1. Il design come idea del possibile

1 Un paesaggio di possibilità Didero fa notare come il fascino di una rovina stia nella sua imperfezione, in quello che deve essere stato e che non sarà più. La rovina è un ossimoro: è la presenza di un’assenza. Anche il design basa buona parte della sua ragione

progettuale su tale ossimoro: osserva un’imperfezione, o una mancanza, ma da tale osservazione sviluppa un atto di prefigurazione (Vorstellung), ossia la facoltà di rendere presente davanti alla mente l’immagine di qualcosa che non sta davanti agli occhi. La Vorstellung è l’immaginazione di una scena possibile (Darstellung), dove si ipotizzano azioni plausibili in accordo con la scena. Ciò da cui il design prende avvio è il “sentimento di un’assenza”, la coscienza dell’inevitabile imperfezione e inadeguatezza del mondo artificiale così come esso è stato socialmente e storicamente prodotto. Il design non contempla ciò che non sarà più: osserva ciò che è e prefigura ciò che può essere. Ciò che ancora non c’è, ma che è possibile. Il design non ha davanti a sé un paesaggio di irreversibili rovine ma un paesaggio di irreversibili rovine ma un paesaggio di possibilità. Questo vuol dire che il primo passo del design non può che essere un atto interpretativo, un’indagine sulla realtà avvertita come materia di problema. E se il design è attività interpretante e proiettiva, la sua natura non può che essere segnica. L’attitudine al design è infatti riconducibile a una facoltà fondamentale della mente, tanto psicologica quanto semiotica: la facoltà di inventare, l’inventiva. Questa poggia sulla forma logica dell’abduzione, soprattutto per la sua capacità di spostare il pensiero verso nuove visioni. Oltre che come settore professionale e disciplinare legato alla produzione di beni, artefatti e servizi, per i diversi settori della vita sociale, il design va considerato in quanto attitudine mentale, come capacità di agire sulla realtà in modo interpretativo. 1 Design, intenzione e fine Nel mondo di Charles S. Peirce, il filosofo della semiosi e dell’abduzione, il nostro design ancora non c’era. Tuttavia, tra i suoi scritti ce n’è uno intitolato Design and Chance. “Progetto e caso” è forse la traduzione migliore. I limiti del linguaggio e della traduzione ci impediscono infatti di tradurre adeguatamente in una sola parola tanto il termine “design” quanto quello di “chance”. Del secondo termine ci limitiamo a segnalare che in italiano dovremmo pensare a una parola che in sé ne contenga almeno quattro: caso, opportunità, possibilità, rischio. Ma la connessione è chiara: il pensiero progettante si muove fra le opportunità del caso, cerca possibilità, è disposto a correre rischi. Peirce, così

come altri filosofi e pensatori anglofoni, usa il termine “design” ma non parla del nostro design. Anzi, egli utilizza una

sola volta il termine, associandolo a Intelligence. Come a sottolineare che il design – tutto il design – richiede intelligenza, intendendo con questo sostantivo la facoltà dell’intendere e del comprendere, quindi dell’interpretare e del giudicare, sulla base della capacità di scegliere e discernere: il latino intelligere vuol dire “scegliere” (legere) “tra” (inter) due o più cose. Ciò che oggi chiamiamo genericamente design, spesso riguarda il prodotto di un processo di produzione, appunto un “prodotto di design”. Mentre il design in quanto attività mentale e semiosica è tutto ciò che conduce verso quel prodotto. Questa attività è tensione e ricerca verso un oggetto necessario. In questo senso, affinché vi sia design occorrono innanzitutto due elementi: l’individuazione di un problema e l’ipotesi di un fine. Il terzo inevitabile elemento è la formazione, la Gestaltung, di un artefatto. Non è solo Pierce che parla di design “prima” del design. C’è anche un passaggio di George Berkeley che associa “design” a “intelligence”. All’inizio del XVIII secolo il termine design indica già un processo connesso a uno scopo, sia esso di ordine naturale, cosmologico o teologico, oppure pratico, etico ed estetico. 1 Disegno e Vorstellung Il design rischia di essere qualcosa che tutti credono di conoscere, ma che nessuno sa dire che cosa sia. La domanda da porsi, tuttavia, non è che cosa significa la parola design, quanto che cosa troviamo intorno alla parola design. Discorrere intorno a una parola vuol dire ragionare pragmaticamente sugli effetti e sulle conseguenze che il suo uso comporta. Design ha origine latina: deriva da designo ed è affine a disegno. Per la lessicografia, si tratta di un anglolatinismo. Il latino designare non è poi così semanticamente lineare. Contiene, per così dire, un programma progettuale: in italiano si traduce con delimitare, tracciare, segnare, disegnare, rappresentare, indicare, regolare, disporre, organizzare. Anche l’italiano “disegno” è polisemico. Anzi, è proprio la sua polisemia a fecondare quella successiva di “design”. Disegnare è tracciare con mano e matita figurazioni grafiche su un supporto; ma è anche prospettare e progettare. Soprattutto, disegnare è delineare qualcosa nella mente e con la mente. Questo disegno è appunto la Vorstellung citata prima, termine che in italiano si tradurrebbe sia con “rappresentazione” sia, forse più propriamente con “immaginazione. Vorstellung e Darstellung sono apparentemente sinonimi. Di fatto, sono una biforcazione semantica, marcata dai prefissi vor- (prima, davanti) e dar- (là, in quel luogo). Vor-stellung definisce la “rappresentazione cognitiva”, quindi appunto l’immaginazione, e infatti è un termine utilizzato anche per indicare l’ipotesi. Dar-stellung, invece, designa la “rappresentazione ostensiva”, quindi la messa in scena, e infatti è un termine usato in particolare in ambito teatrale. Ciò che è oggetto di Vorstellung è ciò che viene prodotto mentalmente, anche senza alcuna realizzazione; ciò che invece è oggetto di Darstellung è ciò che viene prodotto effettivamente e in quanto tale realizzato. La Vorstellung è una visione interiore e individuale, la Darstellung è la visione pubblica e condivisa. Forzando finché possibile il modello della semiosi di Peirce, il triangolo della semiosi o dell’interpretazione, potremmo dire che la Vorstellung sta nella posizione del Segno, mentre la Darstellung si inscrive nella posizione

nuove forme del contenuto (il fine). Perché un disegno è un progetto? A differenza del “segno” – che può essere tanto intenzionale quanto inintenzionale, come le impronte o le somiglianze -, il “disegno” comporta sempre il proposito di significare. Comporta una causa intenzionale o finale, e quindi un autore intelligente o progettante, causa che prende poi forma nell’obiettivazione di una rappresentazione, o di una qualsiasi espressione esterna in grado di agire quale strumento per un fine. È in tal senso, in quanto progetto sorretto da un disegno e mosso da intenzione, in quanto agire finalizzato che tende verso una forma, che il design interessa l’indagine semiotica. Se si lascia cadere questo carattere, lo studio semiotico del design rischia di rimanere limitato ai progetti del design: rilevanti da un punto di vista sociale in quanto testi attraverso cui si formano e trasmettono valori culturali, ma la cui analisi poco ci dice del lavoro semiosico e mentale – e quindi metodologico – che la loro progettazione comporta. 1 Attraverso la forma Nell’accezione vista di Gestalt, spesso si tratta di una forma mentale (disegno interno) ma che si attualizza in un artefatto (disegno esterno). Il design è una particolare specie del progetto. Se è errato ridurre il design al solo disegno, è altrettanto errato intenderlo solamente come progetto: il design è il progetto più altro. Questo altro va cercato nella sua specifica dimensione semiotica: nella sua capacità interpretativa. Il termine progetto va allora inteso in un senso generale: viene prima del design e va oltre il design. Vi sono infatti progetti che non sono design. Nella sua accezione generale, ad esempio, il progetto di presenta come un voler fare o dover fare; il design invece assume anche le sembianze di saper fare. In questo caso, quando cioè il progetto richiede un saper fare, un agire secondo arte, abbiamo un progetto che si realizza transitando, più o meno intensamente, attraverso un design. Progetto sarebbe allora il termine che coglie innanzitutto l’intenzione proiettiva, il voler o dover fare, la quale cerca nelle tecniche le più adeguate forme di realizzazione. Design è invece l’attività competente che dà forma al progetto (il saper fare). Solo il saper fare porta a un sapere tecnico disponibile e, soprattutto, di rendere in sé intellegibile il fine cui tende. Si ha design quando si ha un’azione orientata verso un fine, a partire da un’intenzione e attraverso una forma: l’azione progettuale, come la semiosi, prende avvio da un oggetto-problema; l’attività di prefigurazione dell’artefatto va alla ricerca di una forma, la quale ha il compito di tradurre il problema in artefatto; l’artefatto mette in atto il fine del progetto e ha valore di interpretante del problema. Se si parte dall’idea che il fine generale del design sia trovare una riposta plausibile e adeguata a una domanda sociale, allora questa risposta non può non possedere una forma propria e appropriata: una forma in grado di interpretare l’intenzione progettuale da cui è mossa. Se è vero che ogni tipo di progetto è orientato verso un risultato, solo il progetto-design affida tale impresa interamente alla forma dell’artefatto

  • al suo disegno, in entrambi i sensi visti – in quanto forma che autonomamente e chiaramente traduce l’intenzione in artefatto interpretante. Il design è la concatenazione logico-semiotica di questi tre termini, tutti sempre necessari: intenzione, forma, fine. Ognuno di loro ne coinvolge altri. Altrimenti non vi è design. 1 Una visione umanista Per marcare la differenza fra progetto e design, ci riferiamo a giugno del 1954, quando esce il primo numero di Stile industria, la più importante rivista italiana di design. Nell’editoriale il fondatore e direttore Alberto Rosselli sottolinea in che cosa consiste il passaggio, la differenza, fra un artefatto meramente tecnico e un artefatto progettato secondo un’idea di design. Egli sottolinea la necessità di “una nuova categoria di artisti che rivolga la propria attività alla produzione industriale, che conosca i nuovi mezzi tecnici, che ne interpreti il significato e lo traduca nel disegno più giusto, utile e bello di un oggetto”. Sempre nel 1954, a Milano, abbiamo un altro importante evento per la storia del design. Nel corso della decima edizione della Triennale si celebra, tra il 28 e il 30 di ottobre, il primo Congresso Internazionale dell’Industrial Design. Stupisce che a presiedere il Comitato esecutivo sia stato chiamato Enzo Paci, un filosofo che parla di progetto e semiotica, quindi la scienza dei segni a proposito del design, nonostante la semiotica in quegli anni era ancora poco conosciuta e diffusa. Si ha design – sembra dire Paci – solo quando si ha produzione di senso, altrimenti si ha solamente applicazione tecnologica. E questo per due ragioni. La macchina è produttrice di senso solo se partecipa alla storia dell’uomo, se è pensata in relazione all’uomo. Da qui il suo “carattere organico”. Per Paci il design ha influenza tanto sulle attività pratiche quanto sulla vita relazione dell’uomo. Per questa ragione il design di cui egli parla non è solamente una strategia in funzione del mercato, ma un impegno in funzione della “comunità umana”. La seconda ragione mette invece in evidenza la natura dialogica del designer, il suo inevitabile compito sociale. Il “disegnatore”, cioè il designer, svolge una funzione di mediazione, quindi una funzione semiotica. Ha il compito di mettere in dialogo la committenza con l’utenza, i valori economici con i valori d’uso. Il designer media tra la complessa natura degli artefatti e gli effetti di senso che questi avranno sui soggetti-utenti – sulla “totalità della vita umana”. Inoltre, egli fa un’osservazione sul tipo di lavoro semiosico che il designer svolge in quanto mediatore fra le esigenze della produzione e le esigenze della comunità umana. 1 L’inventiva è una necessità È l’inventiva il lavoro semiotico del designer. Non l’invenzione ingegneristica (non solo), ma l’invenzione di segni

mediatori. Non l’invenzione di nuove macchine (non solo), ma l’invenzione di nuovi interpretanti e abiti sociali, di modalità d’uso costantemente rinnovate, o che rinnovino o reinventino la nostra relazione con le cose. L’inventiva è del resto una necessità. Per consumo Paci non intende il “passare di moda”, quanto il riproporsi ripetitivo e stereotipato delle forme. I prodotti si ripetono “perché le nuove forme ricalcano i vecchi disegni, ripetono lo stesso titolo; si consumano le forme come si consumano le materie prime che noi usiamo”. In questo modo riporta il consumo alla sua più genuina funzione: fornire alla “comunità umana” i mezzi più idonei e meglio concepiti per affrontare la propria esperienza.

2. Una semiotica del progettare

2 Una visione allargata Enzo Paci quindi ci dice che la progettualità è di per sé semiotica. Riguarda una trasformazione, il passaggio di senso da uno stato di bruta esistenza (il mondo così com’è, indipendente dalla volontà umana) a una realtà progettata, voluta e desiderata (il mondo artefattuale, dipendente dalla nostra responsabilità). Questa realtà progettata è ciò che chiamiamo cultura, la quale passa anche attraverso le cose della nostra quotidianità. Sono le cose che determinano in ultima analisi il senso delle nostre azioni. E il senso è anche prospettiva, è risposta alla domanda del perché e per chi si progetta. Questo fa del design una prassi “politica”, sia perché la vita sociale è sempre più mediata dai beni di consumo (per lavorare, per comunicare, per organizzare il quotidiano), sia perché lo sviluppo delle attività cognitive è sempre più affidato al grado di complessità degli strumenti di comunicazione e di apprendimento. La semiotica ha i mezzi per iniziare a interessarsi anche di una visione allargata del design e della progettualità, come processo finalizzato alla costruzione della comunità sociale. La semiotica può e deve interrogarsi sul senso del progettare e sul progetto del senso. Per tendere verso questo fine, la semiotica deve diradare le ambiguità semantiche intorno al design e affrontare un’altra oscurità semantica, che si proietta sul lessema “design”, il quale sta a indicare sia il processo progettuale (la spinta al fare), sia uno dei caratteri del risultato di questo processo (la qualità degli artefatti). Questa oscillazione semantica è tanto confusa che il secondo aspetto, quello che va individuato nella forma e nella cura della qualità sensoriale, non solo oscura il primo, ma ne produce un terzo assai deleterio: la credenza per cui è design solo ciò che risponde a criteri di esclusività estetica. Questo terzo aspetto non solo fa dimenticare che design è progettualità, ma di fatto attenua il valore di mediazione interpretante della forma, per metterne in evidenza solo quello di artificio accattivante. È da qui che forse erompe la retorica del “design accattivante”, dimenticando che accattivare vuol dire sì conquistare il favore del pubblico, ma più ancora rendere qualcuno prigioniero e ridurlo in schiavitù: la schiavitù del consumo vistoso e anche dannoso. Nella vulgata giornalistica o pubblicitaria, infatti, un prodotto è definito “di design”, ovvero didesign, quando ha un carattere distintivo rispetto al panorama delle merci. Una sorta di aristocrazia dei prodotti. Un valore tanto simbolico (per il suo valore di status sociale) quanto di scambio (per il suo valore economico). Un valore aggiuntivo alle cose del mondo, qualcosa che le rende più appetibili e appetitose. A ben guardare, noi parliamo di design ma intendiamo industrial design. Parliamo di industria e di economia, di effetti sociali e di scelte che riguardano la vita pubblica. Uno dei primi contesti in cui il “design” diventa “industrial” è il libro di Earnest Elmo Calkins The Advertising Man, del 1922. Calkins è un pubblicitario. Egli sente la necessità di parlare di industrial design perché negli anni Venti del Novecento, negli Usa, i pubblicitari si erano accorti che la causa delle scarse vendite non era dovuta alla loro imperizia comunicativa quanto alla poca considerazione formale dei prodotti. E così propongono ai produttori di rivederne il disegno, spingendoli a una progettazione esteticamente più accurata, attenta a ogni aspetto e dimensioni del prodotto. È per questa via che gli oggetti dell’utile diventano oggetti del desiderio. E dall’uso l’accento di sposterà presto sul consumo. Il libro di Calkins mette in evidenza tre aspetti: attraverso il design gli artefatti acquisiscono una maggiore valenza comunicativa; tale valenza contribuisce all’aumento del valore degli oggetti, anche in senso economico; la progettazione di artefatti per via industriale si trova sempre, a differenza della produzione artigianale, al centro di un trivio: l’arte, la scienza, l’economia. Il problema – sociologico, più che semiotico – è verso quale fine punta tutto ciò: il senso delle cose, o il senso del consumo? 2 Il senso possibile Bisogna ora capire se e attraverso quali vie il design può essere inteso come una semiotica del cercare: cercare un senso, una soluzione, un valore. Ora chiediamoci se si possa pensare a una semiotica che guardi al design non solo per mettere sotto analisi i suoi prodotti, per scomporne e ricomporne strutture e articolazioni, ma anche a una semiotica in grado di pensarsi come parte del processo progettuale. Non una semiotica del design, ma una semiotica nel design. Oppure, una semiotica del e nel progetto. Semiotica del progetto: da un lato, è la semiotica che si occupa del progetto, come oggetto di studio della scienza dei segni; dall’altro, è il progetto che possiede una propria semiotica, come parte dell’attività progettuale. Nel primo caso il lavoro del semiotico è quello di indagare, analizzare o interpretare il prodotto dell’attività progettuale. In questa prima accezione, l’espressione potrebbe essere intesa come “semiotica dei prodotti del design”, degli oggetti o testi oggettuali che il design nelle sue varie forme e applicazioni produce. Nella

L’inventiva altro non è che l’allenamento all’interpretazione. È il momento più acuto della semiotica intesa come attività interpretativa, che interpreta il mondo per conoscerlo e trasformarlo. La semiotica del progettare dovrebbe allora cogliere il design come l’atto semiotico che disegna le connessioni, le relazioni, le interdipendenze tra un’idea e la sua forma realizzata, passando attraverso un atto di prefigurazione. Senza questa visione che abbraccia l’intero “disegno”, dall’intenzione al fine, senza questa competenza regolativa che è il design, il disegnare o il designare, ossia il dare nome e forma e senso alle cose, senza tutto ciò ogni progetto rischia di rimanere irrealizzato, o di limitare la propria efficacia a un atto di mera ripetizione. La forma che il design disegna è la forma di un contenuto che il design, attraverso la forma, rende noto. Da qui la connessione fra design e abduzione. Il disegno del design è l’invenzione di una forma in grado di compiere un salto inventivo e di mettere così in luce aspetti inesplorati del nostro universo semantico e pragmatico.

Per andare dove vogliamo andare: le vie dell’inventiva

3. Il ciclo inferenziale

3 La mente è inferenziale Nella considerazione del design, inteso come attività interpretativa e inventiva, si potrebbe partire da questa preposizione: la mente è inferenziale. O meglio: la mente è abduttiva e progettuale. Progettuale in quando abduttiva e perché protesa all’ipotesi. Se infatti la mente è adattiva, se forma le proprie categorie a partire dalla sua relazione con l’ambiente (dall’incontro-scontro con l’ambiente), allora la progettualità è una delle prime attività interpretative e semiosiche di ogni organismo vivente. La mente è progettuale perché sollecitata dalle circostanze a produrre nuovi comportamenti, per adattarsi al suo proprio ambiente e perché è protesa a pensare questo stesso ambiente come un luogo perfettibile e adattabile. Il nostro “ambiente”, da qualche tempo o millennio, è quello che ci vede sempre più immersi in un panorama che unisce natura e cultura, istinto e intelligenza. La simbiosi fra oggettualità naturale e oggettualità artefattuale dipende dal modo in cui noi sappiamo scegliere i tracciati sui quali camminare e le mete verso cui questi conducono. Dove vogliamo andare e per quale via? E perché per vedere la meta abbiamo bisogno di un pensiero abduttivo? 3 Dal noto all’ignoto Un’inferenza è la forma logico-semiotica del ragionare attraverso cui procede la conoscenza. È per tale motivo che il processo inferenziale è al centro di ogni attività semiosica. Senza inferenza nessuna semiotica sarebbe concepibile, infatti, facciamo un’inferenza ogni volta che attribuiamo senso alle cose, ogni volta che diamo risposta all’accadere degli eventi, tanto quando siamo di fronte a ciò che Sigmund Freud ha chiamato Unheimlich – l’assoluto estraneo, quindi inatteso e incomprensibile –, tanto quando leggiamo e comprendiamo il titolo di un giornale. Quando siamo impegnati in un’inferenza la nostra mente compie un percorso: parte da qualcosa che ci è noto, attraverso una zona intermedia, arriva a conoscere o comprendere qualcosa che prima ci era ignoto. La zona intermedia è la facoltà mentale di individuare implicazioni fra oggetti ed eventi: qualcosa è logicamente e semiosicamente connesso a qualcos’altro, e per tale ragione l’uno diventa il segno dell’altro. L’implicazione è ciò che permette il passaggio semiotico della mediazione. Se non c’è implicazione, non c’è mediazione; se non c’è mediazione, non c’è semiosi. Questo vale anche nei casi in cui implicazione e mediazione sono stabilite per legge o convenzione. Ciò che distingue i tre tipi di inferenza non è solamente la forma logica attraverso la quale esse si svolgono, ma anche la natura dell’oggetto noto, e soprattutto quella dell’oggetto ignoto, quello verso cui tendiamo. Si agisce per induzione quando si va verso qualcosa (in-duzione); si procede per deduzione quando da questo qualcosa si proviene (de-duzione); si ha invece abduzione quando il pensiero compie un movimento laterale (ab-duzione), o un salto, oppure quando si procede a ritroso (e in tal caso è anche chiamata retro-duzione). La meta – la conclusione logicamente prodotta – di una induzione è una sintesi, quello di una deduzione una tesi, quello di un’abduzione una ipotesi. Ognuna delle tre inferenze ci porta quindi in uno stato mentale differente: la deduzione ci conduce alla certezza, l’induzione al ritenere una verità probabile, l’abduzione coglie sempre una possibilità. E questa è la ragione per cui la deduzione richiede capacità di calcolo, l’induzione il saper sperimentare, l’abduzione la disposizione all’affidarsi all’azzardo. 3 Le tre parti di un’inferenza Le tre inferenze sono composti da: antecedente (A), conseguente (C) e implicazione (→). Antecedente (A) vuol dire “che accade per primo”. Nell’esperienza può essere la prima cosa che osserviamo e che cade sotto la nostra attenzione e considerazione. Conseguente (C) significa “che segue”. È l’evento che -sempre nell’esperienza e adottando un criterio strettamente temporale – osserviamo accadere dopo il primo evento. È la sua conseguenza. L’implicazione (→) è il connettivo logico attraverso il quale, a partire dall’antecedente A e dal conseguente, si forma una nuova proposizione: A implica C. In termini logici, antecedente e conseguente sono due proposizioni: come due frasi, ovvero due osservazioni di uno stato del mondo che danno luogo a due giudizi. In ogni processo semiosico ogni proposizione è un atto interpretativo. È un giudizio che viene dato a partire dalla constatazione di una relazione

segnica. Si ha un caso di induzione quando si fa esperienza dei fatti mettendone in luce l’interdipendenza. Si ha un caso di abduzione quando si cerca una spiegazione ai fatti di cui si ha esperienza. Si ha una deduzione invece quando il giudizio è un’azione che deriva da una legge. 3 Induzione: osservare per spiegare La conclusione, l’implicazione A → C, una legge generalizzata o una regola. Ma è solo probabile, non certa perché si basa su un’osservazione statica. E probabilmente viene assunta come relazione costante fra una causa e un suo effetto. Per tale ragione, il risultato di un’induzione è una sintesi, intesa come unione fra antecedente e conseguente. Una sola osservazione sperimentale non basta. I fenomeni non si lasciano leggere e interpretare al primo sguardo. Galileo scriveva di ripetere molte e molte volte un esperimento, perché l’accadere in un fenomeno può anche esser frutto del caso, o di condizioni momentaneamente accidentali. 3 Tre aspetti dell’induzione Oltre all’osservazione, i caratteri di fondi dell’induzione sono quelli della sperimentazione e della verifica o prova. Avremo così: (a) un’induzione osservativa: quando intendo individuare, attraverso l’esplorazione di ciò che accade nel mondo- ambiente, una legge o in genere una regolarità. (b) un’induzione sperimentale: quando cerco il modo migliore di capire meglio, progettare o costruire qualcosa; l’esperimento precede una teoria e la prepara: due oggetti di ricerca vengono fatti incontrare ad arte, e dalla reazione della loro connessione si ricava un’indicazione scientificamente valida. (c) un’induzione di verifica: quando voglio essere sicuro di ciò che ho trovato o progettato e provarlo; la verifica è un processo inferenziale che arriva dopo – dopo una teoria o dopo un’ipotesi – e ha valore di conferma e convalida. 3 Deduzione: calcolare per agire Se l’induzione è in cerca di una legge-mediazione, la deduzione prende avvio da una legge già conosciuta. La formula è: (a) conosco la legge per cui il fatto (A) comporta o implica il fatto (C); (b) constato di trovarmi di fronte al fatto (A); (c) quindi mi attendo che sicuramente seguirà il fatto (C). In questo caso la conclusione avviene necessariamente e meccanicamente. Perché se la premessa è vera e se il ragionamento è stato condotto secondo la corretta meccanica, la conclusione di una deduzione non può che essere vera e certa. Ecco perché questa conclusione è una tesi, cioè una posizione acquisita. L’implicazione A→C è una legge o regola, ma può essere anche una credenza o una solida consuetudine. La conclusione è per contro un’applicazione della legge, o un risultato della regola, o un effetto della causa; oppure è il rispetto di norme sociali o giuridiche, l’osservanza di un’abitudine, l’attenersi a una procedura. In ogni caso, la legge di implicazione iniziale è qualcosa di fissato e che tende a ripetersi. Qualcosa che viene assunto come vero, o che si presume che sia vero. 3 Abduzione: lo spazio del possibile La formula dell’abduzione comincia dal conseguente. La formula può essere ricavata direttamente da una citazione di Peirce: (a) si osserva il sorprendente fatto (C); (b) ma se fosse vero (A), (C) sarebbe spiegato come fatto normale; (c) quindi c’è ragione di sospettare che sia vero (A). La conclusione è solo una possibilità, non una certezza. Ma questa è la forza dell’abduzione. La conclusione di un’abduzione è solo un’ipotesi, una tesi ancora sotterranea e provvisoria. Non importa se la conclusione di un’abduzione risulti errata o inadeguata: essa ha valore perché è la proposta, temporanea e bisognosa di verifica, di una delle alternative possibili. L’abduzione è per definizione una scommessa e un azzardo avventuroso – seppure, quando concerne decisioni vitali, comporti la responsabilità della scelta. L’abduzione è in tal modo l’unica inferenza la cui conclusione è una possibilità: perviene a un forse, a un may-be. Ma per quanto incerta e soggetta a verifica, l’abduzione è anche l’unica inferenza che ha carattere esplicativo: non solo spiega i fatti, ma ci permette di scovarli, trovarli. L’abduzione interpreta i fatti e cerca di fornire una spiegazione della loro esistenza. Essa muove da un fatto sorprendente e conduce verso la sua causa possibile; prende avvio da ciò che accade di fronte alla nostra mente, a partire da ciò che la sorprende o incuriosisce, che la interessa proprio perché stimola alla conoscenza. 3 Il macroargomento L’abduzione, la formazione di un’ipotesi, è quindi l’atto inaugurale di ogni processo progettuale. Secondo Peirce, l’abduzione è il primo passo, mentre l’induzione è la sua chiusura. Se l’induzione cerca dei fatti per poter arrivare a una teoria a partire da un’ipotesi, l’abduzione cerca un’ipotesi perché sollecitata dai fatti, da un qualcosa che, per la mente, costituisce un interrogativo ancora senza risposta. Ma per quanto l’abduzione sia concepibile come il primo passo di un processo progettuale, l’abduzione da sola non porta a nulla. Così, per quanto l’abduzione permetta alla mente di essere inventiva, nessun progetto può affidarsi solo all’abduzione; l’inventiva può costituire la fase aurorale del processo progettuale, ma non la sua unica via. In altri termini: per quanto la teoria faccia una distinzione netta fra le tre inferenze, nel flusso del pensiero esse sono amalgamate come i diversi elementi in un composto chimico. La composizione delle tre inferenze è chiamata da Peirce macroargomento, che può essere inteso come il tracciato

è “conoscere la regola”, e viviamo solo in parte in un mondo induttivo, perché non di tutto possiamo fare esperienza diretta, né tutto è passabile di esperimento o verifica. Viviamo invece in un mondo-ambiente che sollecita la mente a cercare spiegazioni e il più delle volte abbiamo a nostra disposizione solo l’abduzione.

4. Abduzione, semiotica del trovare

4 Nell’aperta prateria L’abduzione può cadere, fallire o prendere direzioni inattese e condurre in luogo sconosciuto. Può trovare luoghi che non pensava esistessero. La sua strada non è mai segnata. Anche il nostro camminare e vagare, il movimento che ci porta da un punto di origine a una meta, attraverso l’esplorazione e la ricerca – specie quando ignoriamo il luogo della metà – è alla base del processo per ipotesi. E forse alla base dello stesso pensiero segnico e del linguaggio. Infatti, la necessità di sapere dove ci si trova e per dove si deve andare – ciò che chiamiamo senso di orientamento. Se così l’induzione è sintesi che mette insieme dati dall’esperienza, e la deduzione una tesi che definisce una data realtà, l’abduzione è il tentativo di vedere attraverso il dato fenomenico. L’abduzione è trovare prima ancora di iniziare a cercare: è una logica del cercare e una semiotica del trovare. 4 Tipi di abduzione Massimo Bonfantini differenzia l’abduzione in diversi tipi. La varietà dei tipi deriva dai versi modi di cogliere la legge- mediazione che individua in ipotesi la connessione possibile fra un conseguente e un antecedente. 4.2 Primo tipo: quando l’abduzione avviene quasi da sé Nell’abduzione di primo tipo, la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato è data in modo obbligante e automatico o semiautomatico. Il primo tipo potremmo anche chiamarlo abduzione reattiva e obbligata. È l’abduzione che non ci accorgiamo di fare, quella che la nostra mente elabora inconsapevolmente ma inevitabilmente. In questi casi, è soprattutto il sistema sensoriale e percettivo che “ragiona”: capta una sensazione in quanto effetto, e immediatamente (senza cioè mediazione razionale) ne trova la causa. Gran parte degli spazi architettonici sono, a pensarci bene, calcolati tenendo in considerazione le nostre abduzioni inconsapevoli. Entrare, salire, camminare, fermarsi, ecc. sono azioni che l’architettura di fatto provoca e guida senza impegnarci intellettualmente. Ma fuori, per strada, può capitare di attraversare la strada un po’ sovrappensiero, e di sentire, con tutto il corpo e non solo con le orecchie, il sopraggiungere minaccioso di un veicolo. Ci fermiamo di scatto e balziamo indietro. In questi casi è un’abduzione di primo tipo a salvarci. Per questo è lecito sostenere che la mente è abduttiva e che l’abduzione è adattiva, come una facoltà sviluppata e sedimentata nel corso dell’evoluzione. Questo tipo di abduzione ha luogo perché nella nostra mente si trovano matrici comportamentali, schemi di eventi possibili appresi e memorizzati. Dei modelli mentali. Nell’arrestarsi di fronte a un pericolo, è quindi l’istinto di vita che ragione per conto nostro. Nell’orientamento, invece, è l’esperienza spaziale precedente a pre-disegnare il percorso. Queste matrici o schemi (o pattern, modelli) sono chiamati da Peirce abiti (habit) – percettivi, comportamentali, culturali – e funzionano in coi come dispositivi di risposta agli stimoli e ai problemi del mondo-ambiente, del mondo dell’oggettualità e dell’esperienza. 4.2. Secondo tipo: quando l’abduzione esplora e sceglie Nell’abduzione di secondo tipo, la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato viene reperita per selezione nell’ambito dell’enciclopedia disponibile. Quella di secondo tipo è un’abduzione selettiva o esplorativa. Anche in questo raggruppamento gli abiti stanno sullo sfondo delle nostre azioni-interpretazioni, ma non sono più soli. Accanto e oltre loro stanno le conoscenze consapevoli e disponibili che ognuno di noi porta con sé. Una sorta di deposito di “dati” e intreccio di nozioni. In questi casi, di fronte a un evento che ci sorprende, la mente avvicina una rapida rassegna di tutte le cause plausibili. Le conoscenze che permettono di vedere attraverso sono per lo più fornite dalle scienze naturali e dall’osservazione, ma anche dall’affinamento delle sensibilità (la vista, il tatto, il gusto, così come la freschezza intellettuale) o dalla competenza tecnica. Qui, scienza, tecnica ed esperienza si presentano appunto come enciclopedia che comprende leggi più o meno consolidate e casistiche più o meno ricorrenti, che acquisiamo con l’esercizio e la cura del sapere e a cui ricorriamo con la necessaria finezza dell’ingegno. Il mondo della ragione viene in soccorso al mondo dell’esperienza. Ma cosa alimenta la ragione, ovvero il sapere scientifico, filosofico, esperienziale, artistico? L’abduzione per via di selezione ed esplorazione, infatti, parte pur sempre dal mondo così come è; individua la legge-mediazione utile all’ipotesi immediatamente, senza ulteriori ausili, ma limitando in tal modo il proprio ruolo alla scelta all’interno di leggi e conoscenze già a disposizione. Ora, non sempre una legge- mediazione è immediatamente “a portata di idee”; a volte occorre un ponte attraverso cui arrivarvi. Occorre istituirla, andandola a trovare là dove nessuno si aspetta che sia. Occorre inventarla. Intermezzo. Differenze fra i primi due tipi di abduzione – Qui è necessaria una precisazione: i primi due tipi di abduzione secondo lo schema di Bonfantini non possono in alcun modo essere sovrapposti o confusi, anche se la tentazione può trarre qualcuno in errore. La differenza fra i due tipi di abduzione, infatti, sta nel processo mentale

che porta all’individuazione della legge-mediazione. Nell’abduzione di primo tipo questa è una mera reazione del nostro organismo percettivo-ricettivo e della conseguente risposta cognitiva. L’organismo risponde e reagisce allo stimolo esterno in virtù di uno schema consolidato: questa è la ragione per cui Bonfantini chiama non solo “obbligante” questo tipo di abduzione, ma anche “automatico o semiautomatico”. Obbligante vuol dire che non vogliamo, o non possiamo, prendere in considerazione altre alternative. Si tratta quindi di abduzioni che avvengono quasi sotto il livello della coscienza. O meglio: in condizioni in cui la conoscenza è, per così dire, impegnata altrove o in condizioni tali per cui i dati della realtà (ad esempio gli stimoli ambientali) che arrivano alla coscienza sono opachi. Al contrario, l’abduzione di secondo tipo chiama in causa la coscienza in toto, inducendola a un atto di esplorazione dell’ipotesi plausibile, “per selezione nell’ambito dell’enciclopedia disponibile”. Ricevuto lo stimolo, ossia notato e osservato il fatto sorprendente, la menta si impegna in un atto di ricerca e di scelta. In questo caso non sono gli eventi che inducono la mente a compiere un’abduzione, ma è la mente che nel compiere l’abduzione interroga gli eventi. Esattamente il contrario rispetto al primo tipo. L’abduzione è di estrema importanza in ogni procedura progettuale. 4.2 Terzo tipo: l’abduzione inventiva Nell’abduzione di terzo tipo, la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato viene costituita ex novo, inventata. Si tratta di un atto di invenzione. La facoltà di inventare è lo strumento, il medium, che fa conoscere il mondo così come ancora non è stato. Vi sono vari modi di inventare, vari modi di dare forma a nuove conoscenze. Così, questo terzo tipo sarà a sua volta suddiviso in tre sottotipi. 4.2 Primo sottotipo: inventiva per spostamento Nel primo sottotipo, la legge-mediazione è una mera estensione ad altro campo semantico di una forma di implicazione già presente nell’enciclopedia disponibile. Consiste in uno spostamento: prendere una legge-mediazione conosciuta e potarla in un campo semantico del tutto diverso. Riguarda anche piccole invenzioni quotidiane, che poi si estendono creando nuovi modelli. Tutte le reinvenzioni d’uso partono da questo tipo di abduzione inventiva. Nel campo artistico il più noto spostamento inventivo è quello del ready made, il gesto dissacrante e iconoclasta di Marcel Duchamp, come l’orinatoio esposto tal quale (ma capovolto, firmato e rinominato Fontana). 4.2 Secondo sottotipo: inventiva per connessione Nel secondo sottotipo, la legge-mediazione connette ex novo due (insiemi di) elementi già presenti nell’universo semantico dell’enciclopedia disponibile. Consiste in una connessione fra due insiemi esistenti e conosciuti, o fra due serie note di fenomeni o di fatti. L’abduzione qui inventa una loro relazione e interdipendenza possibile, ipotizzando che l’esistenza di una serie condizioni l’esistenza dell’altra, ovvero che il presentarsi di un evento inatteso e singolare in un dato insieme abbia la sua causa in qualcosa che accade in un altro sistema. Gran parte delle leggi naturali o delle credenze popolari verte su tale modalità, come ad esempio quelle relative all’influenza delle fasi lunari su altri fenomeni (le maree). Ma queste sono relazioni effettivamente presenti nella natura. Stiamo così parlando di connessioni tra fenomeni soggetti alla storia, al mutamento, al progresso o al regresso. Le ipotesi sulla connessione fra conoscenza note, infatti, riguardano per lo più le scienze umane dove importanti sono i rilevamenti statistici, o le scienze naturali connesse alla storia dell’uomo. 4.2 Terzo sottotipo: inventiva per trasformazione Nel terzo sottotipo, la legge-mediazione introduce a suo antecedente logico un termine fattizio (cioè “fatto e inventato” appositamente dall’istitutore del termine). L’abduzione poggia su una logica iconica, non solo perché l’icona mostra “relazioni fra elementi che prima sembravano non avere nessuna necessaria connessione”, ma anche perché la conoscenza tende a strutturarsi in un’immagine. Il terzo sottotipo di abduzione inventiva ci porta così dentro un aspetto dell’iconicità poco considerato: l’iconicità come proiezione di somiglianze possibili. Il risultato di questa abduzione inventiva sono nuovi oggetti della conoscenza. La scienza, la tecnologia e l’arte sono i campi in cui tale abduzione ha prodotto i suoi effetti più vistosi. Questo terzo tipo riguarda così un atto di riformulazione e trasformazione dell’oggettualità esistente, intesa sia come mondo fisico e naturale, sia come mondo semantico e culturale. Tre sono i gradi di questa trasformazione. Segmentazione e riempimento di varchi – L’invenzione per segmentazione è data dal passaggio dal continuo al discreto. L’ambiente nella sua globalità e i fenomeni nella loro specificità sono oggetto di mappatura e segmentazione da parte delle nostre percezioni, e poi, semanticamente, di pertinentizzazione. Il mondo conosciuto, in fondo, è culturalmente sistemizzato, suddiviso e organizzato in sistemi sintatticamente e semanticamente ordinati. Ma in questa organizzazione qualcosa di incolto rimane pur sempre, e fra le serie definite e ben segmentate e mappizzate nuovi varchi, nuovi intervalli possono aprirsi. Mescola di materiali – Qui l’abduzione inventiva sta nella previsione degli effetti di un atto di fusione e combinazione. La fusione e la combinazione sono anche alla base del principio di armonia. Reazione chimica – Alla base dell’inventiva per reazione chimica sta invece l’atto dello scontro, quello che annulla

5 L’abduzione proiettiva L’abduzione permette allora anche, e per molti versi soprattutto, di guardare in avanti. Non si limita solo a svelare ciò che è stato: il suo sguardo è prospettico e permettere di rappresentare ciò che può essere, interpretando un senso futuro. L’abduzione permette di vedere anche ciò che ancora non c’è, o che è lontano e fuori dal nostro orizzonte; può essere metaforicamente pensata anche come la vista mentale ci cui parla Ippocrate, la quale estende il campo visivo dalla dimensione puramente fenomenica (ciò che vediamo) a quella immaginativa (ciò che potremmo vedere). L’abduzione permette di vedere attraverso il dato fenomenico – fino a trovare prima ancora di cercare. La facoltà del ragionamento abduttivo di prefigurare un senso possibile non va tuttavia confusa con la facoltà di prevedere eventi futuri. La prefigurazione non è previsione. La previsione si affida al calcolo probabilistico, combinando insieme deduzione e induzione. L’abduzione non compie previsioni, non cerca la probabilità ma la possibilità, non calcola ciò che è ragionevole che accasa, ma pone domande e cerca risposte. Ora, questo assumere in ipotesi è appunto una prefigurazione: una figura disposta davanti a sé – tenendo conto che “figura” deriva da fingere, e cioè plasmare e formare, come nelle arti visive. Prefigurare è fingere una scena: è il come se. La prefigurazione è un modello di ciò che potrebbe essere e non è impossibile che sia: è il may-be. La prefigurazione è del resto una delle finalità attribuite al design, insieme alla capacità di mostrare o visualizzare la natura dei problemi. 5. Abduzione e futuro anteriore Come possiamo rappresentare un’abduzione proiettiva? Assumiamo che il conseguente sia un problema, inteso come oggetto o evento che intralcia e impedisce di procedere verso un obiettivo. Occorre allora prendere in considerazione l’esistenza di una forma di abduzione che prefiguri uno stato di cose tale per cui un oggetto-problema rilevato possa non sussistere più. L’antecedente è così posto in un futuro anteriore: oggetto dell’abduzione è ciò che sarà stato progettato. L’intento è cercare non più l’origine del problema ma il suo superamento attraverso un’invenzione, come nel caso della cupola del Brunelleschi.

6. Che cosa ci dice un problema

6 Oggetto e problema In uno dei suoi saggi più noti, The Fixation of Belief (1877), Peirce concepisce la ricerca come una lotta. La ricerca, oltre che lotta, può essere anche scavo, attenzione, comparazione, sperimentazione e molto altro ancora. Ma quando è lotta è perché vi è una credenza o una nuova idea che deve prendere il posto del dubbio. La ricerca è lotta perché comporta lo sforzo del superamento, sia che si tratti di superare un problema, sia che si tratti di placare l’irritazione del dubbio, ma lo è anche per il suo carattere di disaccordo con la conoscenza disponibile, la quale viene d’un tratto ritenuta carente. Il fatto che Peirce chiami lotta la ricerca sottolinea poi come ogni processo di conoscenza prenda avvio da uno stato di stallo, dove non si sa cosa fare, quale direzione (senso) prendere, come uscire dall’immobilità e dall’incomprensione. Lo stato di stallo si ha quando il nostro sapere, l’insieme delle idee e delle esperienze, non è in grado di dare senso alla realtà, con cui “trattiamo”. È lecito pensare che tale stallo si manifesti in diversi modi. Ad esempio, può derivare da una mancanza, o da inadeguatezza, insoddisfazione o disagio. La mancanza è ciò che non c’è ma che dovrebbe esserci. L’inadeguatezza è ciò che c’è ma non nel modo in cui dovrebbe essere. L’insoddisfazione è ciò che c’è ma non è come vorremmo che fosse. Il disagio è ciò che c’è ma sarebbe meglio che non ci fosse. L’insieme di (almeno) questi quattro stati, così come di altri analoghi, può essere generalizzato nel termine problema. Oggettualità e problematicità sono l’avvio dell’inventiva perché l’oggettualità è ciò verso cui la mente dirige la propria attenzione conoscitiva, ciò con cui intrattiene una relazione di incontro-scontro e perché l’oggetto è per la mente sempre un ostacolo o un enigma, realtà che sorprende o incuriosisce, che pone interrogativi, che stimola a pensare il proprio superamento. Lo scopo di questo superamento è raggiungere uno “stato di appagamento” dal quale siano espulse le influenze disturbatrici. 6 Che cosa è un oggetto-problema Questa formulazione lega indissolubilmente design e problema; come se il problema fosse l’unico “oggetto” di cui il design si occupa. Infatti, vi sono molti casi di design in cui l’impresa progettuale non è avviata da un problema, ma da qualcosa di molto vicino a un desiderio. Si tratta di casi in cui la progettualità del design è assai collaterale, se non coincidente, con quella delle arti. Vi sono molti casi storici in cui l’abduzione proiettiva del design non si presenta come “soluzione a un problema”; ma si configura più che altro come una sfida, una fiducia accordata a sé stessi, il voler provare che cosa è possibile e quali effetti si ottengono se si agisce in un determinato modo. Specialmente quando questo modo è un’invenzione o ricombinazione di forme e materiali tali da dar vita a strutturazioni inedite. È il caso della sedia Wassily disegnata nel 1925 da Marcel Breuer. È il caso in cui l’idea progettuale non assolve al compito di trovare una soluzione a un problema, perché di fatto il problema non esiste e se esiste è esso stesso fattizio, il suo avvio ha ugualmente a che fare con il superamento di un ostacolo o di uno stato di insoddisfazione. Qualcosa che intralcia il cammino, secondo l’etimologia di problema: ciò che si propone o pone davanti. Questo caso richiedeva il

superamento di un intralcio, mentalmente o fattivamente, perché intralcio è anche il conflitto tra l’insorgere di un desiderio e i vincoli oggettuali dei modi di produzione. Come sintetizza Argan, la sedia di Breuer è “la prima sintesi operativa e funzionale delle arti, la prima, grande vittoria del ‘disegno industriale’”. La ricerca del fine è l’effettivo “oggetto-problema” di Breuer – di cui la sedia Wassily è un eccellente interpretante. In altri termini: il problema di Breuer non era progettare una seduta più confortevole o esteticamente gradevole, ma elevare a valor intellettuale e d’arte una materia profana come i tubi d’acciaio. 6 Che cosa è una soluzione-interpretante È stato giustamente osservato che il design non può essere ridotto a una questione di problem solving: rispetto a un problema, il fine del design non sarebbe quello di cercare una soluzione. Ma ciò è condivisibile solo se si pensa che il trovare una soluzione sia un’operazione conclusiva e definitiva. Progettando e producendo oggetti, il design produce soluzioni a problemi che si trasformano in nuovi problemi: ogni oggetto è un problema. Nel design la soluzione non è allora la presunta “dissoluzione” del problema, tanto meno il suo scioglimento conclusivo e definitivo: al contrario, ogni soluzione è l’interpretante del proprio problema. Ciò che chiamiamo soluzione, in altri termini, non annulla il problema (perché un nuovo problema tenderà sempre a riproporsi, anche sotto le vesti della soluzione stessa), ma lo interpreta: lo rende evidente, lo comprende, lo controlla. Trovare una soluzione è lo stadio momentaneo ma necessario di un atto interpretativo e di ricerca. Trovare, inventare, una soluzione vuol dire passare dal dubbio alla certezza, seppure precaria e fallibile. Questo passaggio è possibile quando il dubbio viene semioticamente indagato, fatto oggetto di interpretazione; quando l’oggetto del dubbio, l’oggetto-problema, viene tradotto in segno e quando tale segno viene a sua volta tradotto in interpretante. È questa la via dell’abduzione proiettiva: vedere nel problema la soluzione-interpretante che questo contiene. 6 L’abduzione nella prassi Vi sono due mondi fra loro differenti, secondo Dewey: il mondo prima di un’inferenza abduttiva, il mondo noto, e il mondo che viene dopo l’abduzione. Nel mondo dopo l’abduzione si ha una “nuova chiarezza” e una “nuova sistemazione”. Il salto abduttivo è il passaggio da un mondo all’altro, il che richiede che si possa far leva su una conoscenza consolidata per potersi proiettare verso una nuova e ipotetica. Il pensiero proiettivo è pur sempre il pensiero di un progetto. È un pensiero che ha davanti a sé molte strade, ma non tutte. Come possiamo quindi fidarci di un’abduzione, e, in particolare, di una che si proietta verso un senso futuro e possibile? Innanzitutto avendo ben presente che la logica dall’abduzione, o il comportamento abduttivo, ha a che fare con il fine stesso del pragmaticismo. Peirce afferma che solo un procedere abduttivo è in grado di disegnare le vie della nostra condotta pratica. Abbiamo costantemente bisogno di sapere che cosa fare e come fare, così come di risposte che orientino la nostra azione. Abbiamo bisogno di sapere se mai è possibile avere risposte alle nostre domande. Alcuni potrebbero aggiungere: abbiamo soprattutto bisogno di conoscere la verità delle risposte che siamo in grado di ottenere. Ma qui sta il punto. La verità di una risposta non è, nel nostro caso, la verità di un responso oracolare. Le risposte ai nostri interrogativi non hanno la forma del comandamento: un’abduzione non produce un insieme di regole da applicare o tracciati da seguire. La verità delle rispose che un’abduzione può fornire la si può commisurare solo nella considerazione delle conseguenze pratiche cui questa conduce. I concetti e le credenze, dice Peirce, differiscono necessariamente l’uno dall’altro. Ma la loro differenza, il loro “valore di verità”, ha una rilevanza circoscritta. È quindi ancora la proiezione verso una condotta futura a rendere le nostre opinioni più o meno adeguate, e a farci decidere verso quale direzione procedere. Se si vuole, questa è la dimensione “politica” dell’abduzione, nel senso della sua incidenza nella responsabilità delle scelte e nell’orientamento delle opinioni pubbliche. Se così l’abduzione da un lato mette limiti al proliferare caotico delle idee, da un altro è stimolo all’immaginazione; purché questa sia, nel suo volo, orientata al conseguimento di effetti pratici concepibili. 6 Abduzione e immaginazione I due mondi di Dewey, infatti, non possono che essere mondi connessi, dove il legame viene individuato per somiglianza come avviene nell’icona, o attraverso connessioni di fatti come nei segni indicali, non per decisione arbitraria. Rintracciare tali legami semiotici è ciò che può farci avere fiducia nell’abduzione. Se il salto dell’abduzione non è un procedere su una strada già segnata, non è neppure un vagare senza meta: è il passaggio da un dominio a un altro dominio, dove il primo ha durezza o l’oscurità di un’oggettualità problematica e il secondo la chiarezza e la felicità di ciò che apre al nuovo. Fra l’uno e l’altro lavora la forza dell’immaginazione. La connessione è data dalla logica della semiosi, dal suo procedere dall’Oggetto al Segno, dal Segno all’Interpretante: da una realtà da interpretare a una realtà interpretata. Il momento in cui l’abduzione prende forma è osservabile nel costrutto semiotico del modello, vale a dire nella capacità della mente di trovare e porre chiara davanti a sé l’immagine esplicativa di una realtà possibile.

Di modello in modello: porre un’immagine davanti a sé

Una seconda costante è data dal fatto che, nel dibattito epistemologico, la nozione di modello si presa per una duplice visione, e quindi è destinata a essere vista come portatrice di una doppia funzione. Questa ambivalenza è ben sintetizzata da una storica querelle tra il fisico francese Pierre Duhem e lo scienziato ed epistemologo scozzese Norma Robert Campbell. La posizione di Duhem è la seguente: i modelli possono rappresentare degli utili ausili psicologici nel suggerire ed esplicare nuove teorie, ma sono tutt’altro che necessari, perché – sostiene – distraggono la mente dalla ricerca di un ordine logico. Per Campbell, invece, le analogie e i modelli sono parte assolutamente essenziale delle teorie: anche perché una teoria non è un fatto immobile e immutabile, ma qualcosa che viene continuamente esteso e modificato per render conto di nuovi fenomeno o nuovi aspetti. Seppure con scetticismo o parziale accettazione da parte degli uni, o con entusiasmo da parte degli altri, questa querelle ci dice che il modello si configura in ogni caso come strumento euristico nei processi di conoscenza. Ma, appunto, con una doppia funzione: con mero ausilio di una teoria ma estraneo a questa e da questa eliminabile (Duhem), oppure come parte integrante di una teoria, sua componente essenziale e inalienabile (Campbell). Da cui deriva che per modello si può intendere tanto un’immagine in cui una teoria si rispecchia e che viene utilizzata come supporto alla spiegazione e alla dimostrazione, quanto un’immagine a partire dalla quale invece una teoria si genera e sviluppa, come un atto di visione e immaginazione che mette in moto il processo conoscitivo. Come l’Oggetto dinamico nella semiosi di Peirce. 7 Analogia e associazione di idee Alla base di ogni modello sta la nostra inclinazione a pensare per analogia. Il prendere un modello da è il ragionare e argomentare per analogia. Studiata già da Aristotele, l’analogia ha da sempre goduto di rispettabile attenzione, ma da sempre è pure rimasta ai margini degli interessi speculativi della scienza moderna, perché difficilmente riconducibile agli schemi della logica e della matematica. Eppure, l’analogia nasce proprio dalla matematica e costituisce un importante ingrediente della scoperta e della giustificazione nella scienza. La costruzione della conoscenza ricorre all’associazione analogico-metaforica fin da alcune scelte lessicali: fluidità di pensiero, sfera concettuale, nodo problematico. E soprattutto metodo, da metá-odós, “sul sentiero”: metafora che definisce la riflessione sul percorso e sulle procedure da intraprendere. L’ampio uso dell’analogia in ambito scientifico è una necessità. Qui due sono le modalità di associazione, e quindi di tendenziale ricorso all’analogia, più sfruttate: l’associazione a livello lessicale, che avviene mediante il prestito di termini propri di altre discipline o ambiti semantici; l’associazione a livello iconico, che avviene attraverso l’uso di immagini note utilizzate come esempio o illustrazione di altre situazioni non ancora ben definite. In questo caso l’associazione procede per somiglianza tra forme. 7 L’analogia tra arte, scienza e progetto L’analogia è una forma di ragionamento impiegata con pari efficacia tanto nel discorso retorico e poetico, quanto nel discorso argomentativo e scientifico. Ma se nel primo caso intenzione dell’analogia è la costruzione del verosimile, nel secondo il suo fine è la definizione del vero. Due effetti del tutto diversi, divergenti. La differenza, forse, è che in ambito artistico e letterario l’analogia porta alla metafora e all’allegoria; in ambito scientifico e progettuale al diagramma e, appunto, al modello. Nel primo caso le analogie sono costruite a partire da un particolare, pertinente all’analogia, che presenta una rilevante forza semantica ed evocativa, vale a dire fortemente mediata dall’elaborazione soggettiva.

8. I modelli per l’inventiva

8 Le due parti di un modello Il termine “analogia” deriva dal greco, con il significato di proporzione, come in matematica: a : b = c : d. Ma contrariamente alla proporzione matematica, precisa Perelman, l’interesse dell’analogia consiste nel mettere in relazione elementi tratti da ambiti semantici eterogenei, che lui chiama domini. In matematica, infatti, l’equazione “è uguale a” è del tutto simmetrica, visto che concerne un’uguaglianza fra elementi tratti dallo stesso dominio. Nell’analogia invece la relazione è asimmetrica: invertendo i termini della proporzione si ottengono effetti insensati o grotteschi. Questo, va da sé, è perché l’analogia è un processo semiotico e non meramente matematico. La semiotica produce differenze, non equivalenze. La prima coppia di elementi della formula (a : b) viene da Perelman definita tema, la seconda (c : d) foro. Il tema non è uguale al foro, ma ha alcune proprietà in comune con il foro. Perelman precisa poi che fra tema e foro non vi è una relazione di somiglianza bensì una somiglianza di relazioni. Fra tema e foro deve così crearsi una tensione segnica, che va ben oltre la somiglianza. Il foro viene posto in relazione con il tema in virtù di queste proprietà in comune. Lo significa e lo interpreta: ne illumina il senso, gli attribuisce un valore, ne estrae il pensiero. Il foro è sempre l’elemento meglio conosciuto, ed è ciò su cui il tema cerca appoggio. Il foro obbliga e aiuta il tema a guardarsi e a indagare meglio nella propria natura. L’analogia, quindi, è pensabile innanzitutto come un gioco semiotico in cui un dominio o sistema viene assunto come interpretante di un altro dominio o sistema, attraverso un’inferenza. È questo gioco fra tema e foro ciò che distingue l’analogia da altre forme di somiglianza o dall’illustrazione, così come dalla figura retorica dell’esempio. Ciò che nell’analogia è oggetto di comparazione non è

infatti la natura dei singoli elementi, ma la loro azione all’interno di una relazione semiotica. In ogni modello occorre sempre individuare e tenere in evidenza le due parti di cui si compone: i due domini o sistemi, considerandoli come due insiemi: (a) l’insieme oggetto di interpretazione (di compre

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Interpretazione e progetto

Corso: Semiotica

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Interpretazione e progetto – Semiotica dell’inventiva (Salvatore
Zingale)
L’oggetto del progetto
Il pensiero semiotico affonda le sue radici nella medicina di Ippocrate e nell’arte della navigazione. In queste attività, e
in altre che a esse possono essere ricondotte, il ruolo guida è svolto dalla capacità della mente di interpretare un fatto
presente, un oggetto o un evento: i sintomi della malattia, la posizione delle stelle nel cielo. Si tratta di un sapere
pratico. La medicina e la navigazione, così come la caccia o le tattiche di difesa, possono essere definite tecniche del
trovare. Viviamo per trovare: una spiegazione, il significato e il senso delle cose, le connessioni fra un evento e l’altro, il
superamento di un problema, una meta, la conclusione di un percorso fisico o mentale, uno scopo. Questo sapere
pratico è stato chiamato dagli storici Jean Pierre Vernant e Marcel Detienne una “astuzia dell’intelligenza”. Nel pensiero
mitico prendeva il nome di Metis, dea della saggezza e della ragione. Metis è l’avere il colpo d’occhio, l’abilità nel
cogliere l’opportunità, è il saper pensare al di là del conosciuto. Anche il design è un sapere pratico; anche il design
comporta un saper trovare, un saper creare, un saper interpretare. Anche il design muove dalla constatazione che
viviamo in un mondo-problema, perché l’ambiente stesso è problema. Ciò vuol dire che il progettare coinvolge una
duplice capacità interpretativa: da un lato occorre saper comprendere la natura del problema; dall’altro i modi e le
forme per superarlo. La progettualità opera nello spazio di questo doppio sguardo: tra l’insoddisfazione e la ricerca del
piacere. Questo doppio sguardo è quello che Peirce ha indicato nell’abduzione. Tutti gli artefatti, prima d’essere
progettati, sono assenti e possibili: e siamo in grado di pensarli, è solo per via di abduzione. Abduzione vuol dire
interpretazione: è il primo passo del processo conoscitivo, è la via logica che instrada ogni percorso interpretativo.
Labduzione ha uno sguardo oscillante, da un lato verso ciò che potrebbe essere accaduto (e in questo caso è più
propriamente chiamata retroduzione), dall’altro verso ciò che potrebbe essere difficile. Labduzione è anche la forma
dell’inventiva, dove l’inventiva, nel design, è l’operazione mentale che prepara l’innovazione. L’inventiva è la facoltà di
individuare i presupposti dell’innovazione. Per interpretazione non bisogna intendere la ricerca di un senso nascosto. È
l’interpretazione così come risulta dalla semiotica di Pierce, dove uno dei concetti più innovativi e originali è quello di
interpretante, imperniato sul principio secondo cui il significato di un segno, o di un testo, va cercato nell’insieme degli
effetti e delle conseguenze che quel segno produce o potrebbe produrre. L’interpretazione è uno sguardo in avanti,
vista mentale e proiettiva. Il ricorso alla semiotica di Peirce serve a provare la tenuta della teoria delle inferenze nella
prassi dell’impresa progettuale. L’incidenza che le inferenze, e in particolare l’abduzione, hanno nella costruzione dei
testi e degli artefatti, più che nella loro analisi o esegesi. Lattenzione della semiotica inferenziale è rivolta più
all’oggetto del progetto (al problema che il progetto affronta) che non all’oggetto prodotto (all’artefatto che del
problema è interpretante). È quindi un’attenzione orientata a cogliere il lavoro semiosico proprio del processo e del
pensiero progettuale. Nella semiotica del progetto l’interpretazione non è solo l’attività attraverso cui si va alla ricerca
del significato degli artefatti e dei prodotti. Il prodotto dell’interpretazione è, in quanto concetto formale,
l’Interpretante dell’Oggetto. La questione che interessa il design è che cosa dovremo intendere con oggetto. Nel design
l’oggetto del progetto è sempre il problema da cui esso prende avvio. Se non vi è un problema – fosse anche la distanza
fra un desiderio e la sua realizzazione, o la sfida a generare effetti di sorpresa o di innovazione – senza l’esistenza di un
qualsiasi problema non vi è design. Il design è interpretazione di problemi. Il design, inteso come necessità progettuale
e come prefigurazione di ciò che potrebbe/dovrebbe essere, prima ancora che una tecnica è un’attività mentale
inventiva. L’inventiva ha la sua forma logica e semiotica nell’abduzione, modalità del ragionare e del pensare che
induce a cogliere ciò che è “concepibilmente possibile”. Il movimento abduttivo è interpretazione proiettiva: a partire
da un evento permette di pervenire a un senso, seguendo nel suo movimento lo schema triadico della semiosi,
dall’Oggetto all’Interpretante attraverso un atto di mediazione o implicazione logica. Il design non si esaurisce con il
superamento del problema che affronta. Il design è amplificazione del senso delle cose attraverso la forma. È progetto
di bellezza, fra arte e tecnica. Bellezza che però rischia di frantumarsi nel paradosso di Vilém Flusser (1993): il design
come ostacolo alla rimozione di ostacoli, perché le soluzioni si presentano, come osservava Goethe, inevitabilmente
come nuovi problemi. Il design è visto qui come un’estensione semantica del disegno, ossia come intenzione che tende
verso un fine.
Dal disegno al design: viaggio intorno a una parola
1. Il design come idea del possibile
1.1 Un paesaggio di possibilità
Didero fa notare come il fascino di una rovina stia nella sua imperfezione, in quello che deve essere stato e che non
sarà più. La rovina è un ossimoro: è la presenza di un’assenza. Anche il design basa buona parte della sua ragione