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Camagni 2016 Riforma fiscalità urbanistica

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Corso

Economia del territorio e dell'ambiente (ST03 60248)

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Anno accademico: 2019/2020
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Pubblicato in: A. Petretto, P. Lattarulo (2016), Contributi sulla riforma dell’imposizione locale in Italia, Carocci, Roma

La riforma della fiscalità urbanistica

Roberto Camagni (Politecnico di Milano)

  1. Introduzione: città, rendita fondiaria e tassazione 1.

La città è un grande bene collettivo, creato attraverso investimenti e decisioni sia pubbliche che private. Essa genera vantaggi collettivi, ‘esternalità’, di diversa natura che favoriscono il benessere dei cittadini e l’efficienza delle attività produttive insediate. In conseguenza, il valore economico delle sue singole parti, dei singoli luoghi o spazi urbani, non è determinato dall’azione singola, ma dall’azione collettiva, esterna al singolo attore: dal fatto cioè che si verificano sinergie ed esternalità incrociate con tutti gli altri luoghi, grazie alla prossimità, alla presenza di infrastrutture e di capitale fisso sociale, alla presenza di una larga varietà di attività.

Questo processo generale di valorizzazione opera su tutti i suoli e sugli immobili urbani indistintamente, ed appare in larga misura proporzionale alla dimensione urbana (grazie alle cosiddette ‘economie di agglomerazione’) 2. In conseguenza, gli economisti classici giustamente affermavano che i valori fondiari urbani dipendono dallo “sviluppo complessivo della società”. Questi vantaggi e questi conseguenti valori esistono sempre, ed esiste sempre il loro ‘duale’ monetario, la rendita del suolo. La rendita è dunque ineliminabile – ed anzi in larga misura deriva da una efficace, efficiente e lungimirante pianificazione urbana – ma, come hanno insegnato gli stessi economisti classici (e anche un grande neo-classico come Alfred Marshall) può, e deve, essere adeguatamente tassata 3. Alternativamente, è il settore pubblico che dovrebbe assegnare a se stesso la titolarità dell’incremento di valore dei suoli, attraverso la costituzione di un demanio comunale con acquisti preventivi di terreni agricoli periurbani, variazioni nelle relative destinazioni d’uso, infrastrutturazione e vendita o concessione ai privati costruttori in diritto di superficie 4.

1 Desidero ringraziare il giurista (e amico) Alberto Roccella per avermi segnalato il contributo di Ulisse Gobbi al tema qui trattato e per le utili considerazioni sull’art. 17 dello “Sblocca Italia”. 2 Questo processo di valorizzazione si distingue dunque - e si aggiunge nelle valorizzazioni delle singole unità fondiarie e immobiliari – alla ‘rendita differenziale’, che emerge dalle caratteristiche, differenziali appunto, delle singole unità in termini di accessibilità, qualità urbanistica, ambientale o estetica, e configura coerentemente, in termini più moderni, quella che Marx ha chiamato la ‘rendita assoluta’. Si veda: Camagni, 2011, cap. 6. Esso giustifica il divario che si manifesta al margine esterno della città costruita fra valori urbani e valori agricoli, dal quale origina gran parte della speculazione fondiaria. 3 Marshall (1905, p. 619), sulla scorta di Smith (1977, p. 834-35), si spinge fino ad affermare che tali rendite potrebbero anche essere tassate al 100% senza generare sconvolgimenti economici (ma certamente generando sconvolgimenti politici!). Interessante notare come il passo in oggetto, in odore di ‘georgismo’, scompaia nell’ultima edizione autorizzata da Marshall del 1920. Si veda Camagni, 2011, p. 193. 4 E’ questa la ricetta, utilizzata per lunghi periodi in altri paesi come ad esempio la Francia, l’Olanda e i paesi nordici, che il grande economista italiano dell’inizio del secolo scorso, Ulisse Gobbi, prop oneva formalmente come necessaria riforma legislativa (Gobbi, 2006) e che trovava l’approvazione della maggior parte degli economisti liberali dell’epoca. La rendita intesa concettualmente come ‘reddito non guadagnato’ da parte degli economisti classici viene da lui confermata: “l’aumento di valore del terreno edilizio costituisce un guadagno che non è il compenso di nessuna opera utile” (...), un compenso “goduto da uno speculatore” che, impegnato nella semplice compravendita di terreni, opera come “un’industria perfettamente inutile alla società” che realizza “semplicemente uno spostamento di ricchezza da certe persone a certe altre” (ibid., p. 2). La conseguente proposta operativa era al centro della sfortunata proposta di riforma Sullo del 1963.

Una parte rilevante di questi valori fondiari, e cioè della rendita fondiaria e immobiliare, deriva dalla presenza di beni pubblici: strade, parchi, stazioni, aeroporti, reti di mobilità e di comunicazione, servizi; tutti elementi che implicano una spesa pubblica, nazionale o locale, in conto capitale (investimenti) o in conto corrente (spese di gestione e di manutenzione) nonché l’esistenza di un qualche progetto collettivo di città. Su questo piano specifico, il nostro paese si confronta oggi con una doppia necessità improrogabile: una riforma, tecnica e politica insieme, del governo e della governance territoriale, a tutti i livelli istituzionali e un processo di ri-capitalizzazione delle città. Dare nuova efficienza, nuova qualità e nuova identità ai territori è divenuto compito indispensabile, a fronte delle nuove impegnative sfide che i processi di internazionalizzazione pongono al paese e anche a fronte delle nuove domande sociali in tema di servizi, solidarietà e crescita culturale. E’ diffusa l’idea che da vent’anni nel nostro paese si sia pesantemente sottoinvestito nelle città (Calafati, 2009), un sottoinvestimento che inizia almeno a partire dal 2004 ma che negli ultimi anni è ulteriormente peggiorato per effetto della crisi (Chiades e Mengotto, 2013; Cogno e Piazza, 2013). Fra il 2004 e il 2012 le spese in conto capitale delle amministrazioni locali (dalle regioni ai comuni, che costituiscono il 75-80% degli investimenti delle Amministrazioni pubbliche complessive) sono diminuite del 34%, mentre quelle dei soli comuni maggiori (> 60 abitanti) sono diminuite addirittura del 63% (Camagni, 2014).

Oggi il problema maggiore da affrontare è quello del reperimento delle risorse finanziarie necessarie, dato il momento di crisi profonda della finanza pubblica, nazionale e locale. La tesi che sostengo in questo lavoro è che ciò sia possibile in misura rilevante attraverso un riequilibrio nella distribuzione dei plusvalori di trasformazione urbana fra settore pubblico e settore privato, in favore del pubblico fin qui pesantemente penalizzato.

  1. La tassazione delle rendite di trasformazione

Dal punto di vista del finanziamento, la predisposizione di beni pubblici urbani è sempre stata compito congiunto del governo nazionale e delle amministrazioni locali. Ma la crisi fiscale dello stato (e degli enti locali) ha creato non poche difficoltà, a seguito dell’aumento dei costi degli investimenti fissi, della nuova domanda di strutture e servizi avanzati, nonché dal peso del debito pubblico acceso negli anni della finanza pubblica spensierata.

Oggi, non soltanto appare necessaria una forte razionalizzazione della spesa pubblica complessiva, ma appare ancor più necessario rinvenire fonti di finanziamento delle nuove infrastrutture urbane, soprattutto introducendo o reinventando processi di equa ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalla trasformazione delle città. Si tratta di un programma solo in parte tecnico, ma soprattutto politico, orientato a una diversa distribuzione del reddito fra classi sociali e a una diversa allocazione fra consumi e investimenti dei plusvalori generati dalla crescita della città. Non si tratta di aumentare il peso della tassazione nel paese, già elevatissima, ma di colpire un ambito economico, quello immobiliare, che fruisce di una sorta di paradiso fiscale (eventualmente anche alleggerendo la tassazione patrimoniale sulla casa o sui redditi diversi dalle rendite).

Analisi comparative internazionali ci suggeriscono che vi è nel nostro paese ampio spazio per un aumento sostanzioso della parte di plusvalore che può restare nelle mani del partner pubblico, da realizzare attraverso aumenti degli oneri di urbanizzazione, che oggi spesso non coprono nemmeno i costi delle infrastrutture direttamente al servizio delle nuove costruzioni, e/o attraverso extra-oneri da concordare col partner privato in presenza di importanti progetti di trasformazione.

europei, anche al fine di ridurre il drenaggio di risparmi e investimenti dal settore industriale al real estate 6. Abbattere tali aspettative risulta essenziale oggi anche per avviare una credibile politica di housing sociale: si ridurrebbe infatti il divario fra rendite ottenibili dal mercato libero rispetto al mercato sociale, un divario ampiamente responsabile della storica disattenzione degli operatori del nostro paese per quest’ultimo mercato;

  • ridurre la capacità di corruzione che storicamente, non solo nel nostro paese, si annida all’interno della filiera immobiliare. UN Habitat ha sottolineato recentemente questo rischio di circuito “vizioso” nei processi di pianificazione (UN Habitat, 2013, p. 134-137) mentre l’organizzazione non governativa Transparency International ha stimato che il settore real estate generi il 78% della corruzione mondiale 7. Ricondurre la profittabilità lorda delle trasformazioni immobiliari a un livello simile a quello di altri settori favorirebbe certamente anche la riduzione di pratiche corruttive, un obiettivo sottolineato spesso dalla letteratura sull’esperienza e le legislazioni adottate in molti paesi in via di sviluppo (Smolka, 2013).

Fig. 1 – Il circuito virtuoso della crescita urbana

Occorre tuttavia, in senso generale, intendersi bene su quali manifestazioni della rendita si vuole colpire, poiché è soprattutto la rendita da trasformazione che interessa qui. La rendita infatti si manifesta:

6 Ulisse Gobbi (1906), nel proporre “la trasformazione della proprietà fondiaria urbana da privata in comunale” sottolineava gli stessi effetti positivi attesi: “E’ sommamente desiderabile che attività intelligente e capitali invece di rivolgersi ad operazioni che danno luogo a semplici spostamenti di ricchezza, rimangano disponibili per quelle che hanno per effetto di accrescere il benessere del paese” (p. 10). 7 Si veda il Dialogo fra un Economista e un Urbanista, Giacomo Becattini e Alberto Magnaghi, in Becattini, 2015, p. 120.

Tassazione delle rendite di trasformazione

Rendita del suolo urbano

Sviluppo Urbano

Infrastrutture Verde Risparmio energetico Qualità diffusa Benessere Collettivo

Economie di Agglomeraz. / Innovazione urbana

a - in senso stretto come reddito da proprietà immobiliari e fondiarie 8. In parte questi redditi vengono oggi sussunti nell’IMU-TASI e in larga misura sono già tassati. In questo caso un miglioramento in termini di efficienza e di equità può venire da una revisione specifica degli estimi catastali che riallinei le rendite catastali con le effettive realtà (non tanto in termini assoluti quanto soprattutto in termini relativi fra parti diverse della città e su siti specifici); b - capitalizzata nel valore degli immobili. Oggi questo valore è tassato con l’IMU (al di là della incomprensibile esenzione della prima casa). Si tratta di una imposizione patrimoniale, non proprio in linea con i dettami della scienza delle finanze (si dovrebbe tassare il reddito non il patrimonio) ma che in tutti i paesi è adottata per la sua semplice esazione e per la forte natura redistributiva e federalista ( fiscale). In Italia oggi vedo qualche iniquità nella eccessiva tassazione di famiglie che hanno già pagato un alto scotto alla rendita immobiliare all’atto dell’acquisto dell’appartamento e che spesso vedono i valori di mercato scendere e non più salire come nei precedenti sessant’anni; c - sotto forma di capital gain sulle trasformazioni fondiarie e immobiliari. Questo incremento di valore, generato da mutamenti nelle destinazioni d’uso introdotte da piani, varianti o di fatto, deve costituire il vero obiettivo di una politica impositiva orientata all’equità e alla tassazione della produzione edilizia più che della proprietà. Se l’operatore è un privato, le plusvalenze fra prezzo di acquisto e di vendita di un terreno sul quale si è operato un cambiamento di destinazione d’uso sono soggette a tassazione nazionale separata come ‘reddito diverso’; in questo caso, come valore iniziale si utilizza il valore del quinto anno precedente alla vendita (se il possesso è superiore ai 5 anni) (art. 67 e 68 del TUIR). Talvolta, e per periodi di tempo ben definiti, si è consentito anche di “affrancare” il valore iniziale del terreno/immobile utilizzando il suo valore presente valutato con perizia giurata, pagando una imposta sostitutiva del solo 4%. Come si vede, le probabili elevate plusvalenze realizzate nell’esperienza italiana dell’ultimo mezzo secolo sfuggono ampiamente a questa tassazione. Se si tratta di imprese immobiliari e di costruzione, le plusvalenze vanno a costituire il reddito di impresa, ma, attraverso la filiera delle numerose transazioni che in genere vengono effettuate dall’acquisto del terreno (agricolo) alla vendita degli appartamenti, si perde ampia traccia delle plusvalenze realizzate. Spesso la rendita di trasformazione compare, paradossalmente, come un costo (di acquisto, spesso molto elevato) per l’ultimo operatore della filiera (costruttore/venditore) e non come un reddito o un capital gain! Occorrerebbe in quest’ultimo caso identificare un meccanismo legale che consenta di corresponsabilizzare il suddetto ultimo operatore col suo venditore, attraverso la verifica (anche per auto-dichiarazione) del pagamento da parte di quest’ultimo delle imposte sul relativo incremento di valore.

Ma sulle plusvalenze di trasformazione è normale ricorrere a tassazioni locali dirette (al di là di quelle nazionali, sopra ricordate): oneri di urbanizzazione, contributi sui costi di costruzione, tasse locali di scopo, extra-oneri di negoziazione, tutti strumenti adatti a mantenere le relative risorse fiscali all’interno di un utilizzo diretto al miglioramento della città. Sono soprattutto questi strumenti che paiono assolutamente inadeguati nel nostro paese, non essendo in grado nella maggior parte dei casi di coprire nemmeno gli effettivi costi di infrastrutturazione ed essendo autorizzata attualmente la loro utilizzazione da parte del Comune per obiettivi diversi da quelli della formazione di un capitale fisso sociale urbano.

Tutta questa materia dovrebbe oggi essere trattata complessivamente, uscire dalle tecnicalità specialistiche per divenire oggetto di esplicito, trasparente lungimirante dibattito politico. Tutte le parti politiche hanno parlato di tassazione delle rendite finanziarie, tassando anche i magri interessi sui conti correnti, ma nessuna ha appuntato l’attenzione sulla rendita per eccellenza, quella che nasce dalle trasformazioni urbanistiche e immobiliari. Un caso?

8 Si veda, per una quantificazione di questa fattispecie, Torrini, 2016.

fondiario è bilanciata da una rilevante e crescente imposizione di costi per infrastrutture di interesse generale (Department for Communities and Local Governments, 2006), che in alcuni casi ha raggiunto l’8% del valore del costruito. Nel caso olandese invece, forse oggi il più favorevole al privato fra i paesi dell’Europa occidentale, una parte dei costi di urbanizzazione sono assunti dal settore pubblico e non si addossa al privato alcun onere in termini di edilizia sociale; in questo senso, il caso italiano ove il dimensionamento degli oneri spesso appare insufficiente o comunque limitato, non si discosta molto da quello olandese.

Il caso spagnolo appare assai interessante in quanto in quel paese esiste un dettato costituzionale che obbliga l’amministrazione locale a recuperare parte del plusvalore creato nelle trasformazioni stesse attraverso cesiones de aprovechamiento urbanistico (cessioni di parte del suolo a fronte di una stima del valore del diritto edificatorio). “La comunidad parteciparà en las plusvalias que genere la acciòn urbanistica de los entes publicos” (art. 47 della Constituciòn del 1978). La legge nazionale sul regime dei suoli (Ley del Suelo, del 2007) ha introdotto una forbice da un minimo del 5% a un massimo del 15% per le cesiones de aprovechamiento. Esse sono calcolate sul valore dei puri diritti edificatori, a loro volta definiti come valori di mercato delle diverse produzioni edilizie realizzate al netto dei costi di costruzione e di gestione e dei margini di profitto dei promotori. In sintesi si attribuisce un valore a ciò che è consentito costruire e agli usi che se ne può fare. La Catalogna ha deciso per una percentuale pari al 10% (aumentata al 15% nel caso si tratti di “un aréa residencial estratégica”) che naturalmente si aggiunge agli oneri di urbanizzazione e alle cessioni di suolo per verde, infrastrutture e servizi 9.

In una recente ricerca su casi rilevanti ed emblematici (“virtuosi”, realizzati attraverso accordi di programma) di trasformazione urbanistica residenziale a Roma e nella provincia di Roma realizzati negli anni 2000 (Modigliani e altri, 2016) si è potuto stimare la dimensione della rendita emergente da tali processi e l’incidenza degli oneri complessivi (Tabelle 1 e 2). Emerge, da valutazioni altamente cautelative basate sulle dichiarazioni dei costruttori, una quota di plusvalore (rendita + extra-profitti) sul valore finale del costruito superiore al 50% nel caso di tre progetti romani, e addirittura superiore al 70% in uno dei tre progetti localizzati nella provincia (Frascati). Questo risultato – è importante sottolinearlo – è ottenuto includendo nei costi complessivi, oltre ai costi di costruzione e agli oneri pubblici, il profitto del costruttore, interessi pari all’8% sul totale dei costi e un profitto lordo del developer, inclusivo di imposte, pari al 20% dei costi complessivi, interessi inclusi 10. Deducendo dai plusvalori complessivi un valore iniziale, agricolo, delle aree, la rendita pura di trasformazione rappresenta dal 30% al 35% del valore finale nei tre casi romani e raggiunge il 45% in uno dei casi in provincia – tutti valori assai superiori alla media che gli esperti del settore immobiliare imputano al valore dell’area nei grandi progetti internazionali, pari a un 18-20% -; l’extra-profitto (al di là del profitto di costruttore e developer, come si è detto) si attesta su un ulteriore 20% circa.

Una simile indagine effettuata su un grande Programma Integrato di Intervento a Milano nella seconda metà degli anni 2000 giungeva a conclusioni molto simili (Camagni, 2012): correggendo solo marginalmente alcune voci di ricavo presentate dal costruttore, palesemente sottovalutate, si calcolava l’insieme dei plusvalori di trasformazione pari al 48% del valore finale realizzato.

9 I l fatto che il pagamento avvenga attraverso la cessione di suoli e non in termini monetari limita il vantaggio pubblico del principio generale, visto che il vantaggio privato risiede nell’entità delle volumetrie concesse sul suolo complessivo (in genere tenute elevate sulle aree interne di trasformazione, come la vasta area fra la Diagonal e il Villaggio Olimpico a Barcellona, denominata 22@). La procedura consente tuttavia di realizzare servizi pubblici avanzati su terreni di proprietà pubblica. 10 Una prima presentazione pubblica di questi risultati è stata fatta in Camagni e Modigliani, 2013.

Come si vede, i margini di plusvalore complessivo di trasformazione rappresentano nei due casi analizzati quote elevatissime sul valore finale del costruito, probabilmente anche sottostimate, quali nessun settore produttivo industriale potrebbe realizzare 11.

Gli oneri pagati per prestazioni pubbliche rappresentano, al contrario, una quota quasi irrisoria 12. Nel caso di Roma, la percentuale complessiva rappresentata dal complesso degli oneri di urbanizzazione (comprese le opere a scomputo e altre eventuali prestazioni), è risultata pari a una percentuale fra il 3 e il 7% nei progetti romani e a una percentuale fra il 4 e il 5,6% nei progetti fuori Roma. Nel caso milanese, gli oneri raggiungevano una percentuale dell’8% sul valore del costruito, ma includevano anche le monetizzazioni di mancate cessioni di suolo per standard urbanistici; complessivamente a Milano l’incidenza degli oneri era stimata inferiore al 5%.

Tabella 1 – Plusvalori (rendite) di trasformazione ottenuti in 3 progetti (accordi di programma) a Roma (milioni di euro)

Valori e indici di valorizzazione Bufalotta Lunghezza Polo tecnologico

V1 = Costo totale di realizzazione (inclusi profitti del costruttore e del developer) V2 = Utile su area V3 = Valore dell’area (rendita pura) Vf = Valore finale del costruito

666, 272, 483, 1,

209, 92, 164, 466,

326, 161, 286, 774,

PL = V2+V3 Plusvalore complessivo di trasform. 755,8 257,2 447,

PL/Vf = margine di plusvalore V3/Vf = margine di rendita V2/Vf = margine di utile (extra-profitto) su area V1/Vf = quota dei costi sul valore finale di cui: quota oneri su valore finale

53,1% 34,0% 19,1% 46,9% 6,2%

55,1% 35,3% 19,9% 44,9% 7,0%

57,8% 37,0% 20,8% 42,1% 3,0%

Valore agricolo (Va) dell’area (15 e/mq) Quota Va sul valore finale del costruito Margine di rendita (corretto per valore agricolo) su valore finale (V2+V3)corretto / V1 = Tasso di plusvalore complessivo sui costi di realizzazione Tasso di plusvalore complessivo (corretto), includendo il valore agricolo fra i costi

49, 3,5% 30,5%

106% 98%

9, 2,1% 33,2%

118% 113%

10, 1,4% 35,6%

134% 129%

Fonte: Modigliani e altri, 2016, p. 99

11 Riferendo i plusvalori ai costi totali di produzione e non ai valori finali del costruito, e dunque calcolando un tasso di plusvalore complessivo, si raggiungono percentuali superiori al 100% (ultima riga delle Tabelle 1 e 2). 12 Queste conclusioni sono confermate da recenti indagini del CRESME; si veda Bellicini (2011).

Dapprima, un progetto di riforma urbanistica denominato “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”, elaborato da una Commissione interna del Ministero delle Infrastrutture (ministro Lupi), presenta nel mese di maggio 2014 un’interessante innovazione in tema di tassazione delle plusvalenze di trasformazione, all’interno di un testo per molti altri versi assai preoccupante 14. Si propone un “contributo straordinario per le trasformazioni urbane” (art. 14), con aliquote da definirsi da parte delle Regioni fra un minimo del 30% e un massimo del 66% “in funzione del maggior valore immobiliare conseguibile a fronte di rilevanti (?) valorizzazioni immobiliari generate dallo strumento urbanistico generale rispetto alla disciplina previgente” 15.

La proposta sembra fare propria, e allargare nell’ambito di azione, una precedente Norma Tecnica che introduceva lo stesso tributo nel Nuovo Piano Regolatore del Comune di Roma (art. 20), approvato con delibera consiliare n. 18 del 12 febbraio 2008. Questa norma del NPR, fortemente avversata dagli interessi immobiliari, era stata confermata nella sua liceità dal Consiglio di Stato con delibera dell’8 giugno 2010 (depositata il 13.7) con una motivazione di estrema chiarezza destinata, speriamo, a creare giurisprudenza in materia 16.

Tuttavia, solo due mesi dopo, in una successiva versione del progetto di legge presentata nel mese di luglio 2014, l’articolo 14 scompare 17 , ma solo per ricomparire poco dopo, in forma più precisa, nell’art. 17 del DL 12.9 n. 133, cosiddetto “Sblocca Italia”. Tale decreto introduce un contributo straordinario “sul maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso (...) in misura non inferiore al 50%”. Si tratta proprio di una tassazione di quella che ho chiamato la rendita di trasformazione: se essa, con riferimento ai casi sopra esaminati, si situasse su un 50’% del valore di mercato, l’amministrazione locale otterrebbe un

14 Si veda ad esempio l’obiettivo di "garantire il valore della proprietà" assegnato alla pianificazione (art. 1); il principio di “leale collaborazione” fra pubblica amministrazione e privati “nella definizione e attuazione degli strumenti di pianificazione” (art. 1); o l'indicazione che la pianificazione d'area vasta "e' esercitata dalle province" (art. 7), un ente già allora avviato alla scomparsa! 15 Si individuavano come soggetti all’ “aliquota massima gli interventi che in tutto o in parte comportano consumo di nuovo territorio”, e si finalizzavano giustamente “le riduzioni verso gli interventi di rigenerazione degli immobili dismessi”. Gli introiti del tributo erano destinati, come è giusto, “alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale” anche per la bonifica ambientale. 16 Sotto accusa erano le disposizioni del Piano all’art. 17 che prevedono che “il proprietario può acquisire una quota aggiuntiva di superficie edificabile mettendone una quota maggioritaria a disposizione del Comune, affinché questo la utilizzi per finalità di interesse pubblico” e quelle che prevedono che “detta quota (...) è soggetta al pagamento di un contributo finanziario straordinario” (art. 2 della delibera del CdS). Queste disposizioni erano state in precedenza considerate illegittime dal TAR per violazione del “principio di legalità” configurando “una forma larvata di ablazione della proprietà non trovante copertura normativa in alcuna espressa disposizione di legge (e quindi in violazione dello statuto del diritto di proprietà)”. La decisione del CdS afferma invece “la legittimità della censurata disciplina [giustificata sulla base di] due pilastri fondamentali, entrambi ben noti al nostro ordinamento: da un lato, la potestà conformativa del territorio di cui l’Amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività di pianificazione; dall’altro la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse” (art. 7). Interessante anche la successiva indicazione che al potere conformativo e alla potestà di governo del territorio della PA è connaturata, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, “la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento dei diritti di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali ed astratti” (art.7). 17 E il progetto intero, fortunatamente a mio avviso, si arresta, anche a seguito dell’avvicendamento alla guida del Ministero delle Infrastrutture. Di questo progetto, a futura memoria, è importante rilevare una incongruenza logica: esso introduce, come incentivi all’edilizia, i tradizionali premi volumetrici, che in un contesto di crisi da domanda sono totalmente inutili e inefficaci; sarebbe meglio indirizzare le risorse fiscali per incentivare la domanda di abitazioni, e non l’offerta (già ampiamente remunerativa anche ai prezzi attuali). Per altri versi, la proposta di legge consente la diffusione di pratiche e istituti manifestamente sbagliati (e iniqui), come la perequazione urbanistica “estesa” introdotta dal PGR di Milano, con diritti edificatori attribuiti a suoli periferici e utilizzabili su suoli centrali. Su questo tema si veda il numero speciale della rivista Scienze Regionali (Camagni, Micelli, Moroni, 2014).

contributo pari al 25% di tale valore, avvicinandosi al virtuoso modello tedesco 18. Due ulteriori elementi positivi non irrilevanti sono costituiti dal fatto che le entrate devono avere la forma di versamenti finanziari (e non quella di opere a scomputo, ove si annidano ritardi, sopravvalutazioni, elusioni o peggio, che in altri contesti europei sono sconosciute) e che devono restare assegnati a centri di costo specifici legati agli investimenti e ai servizi urbani.

Si tratta di una norma che finalmente e potenzialmente porta il paese nella schiera dei paesi avanzati e moderni, fortemente federalista e non ambigua 19. Dobbiamo dunque considerarci soddisfatti per quanto concerne la tesi centrale di questo lavoro, e cioè la necessità di elevare la tassazione delle rendite di trasformazione? Purtroppo la risposta non è positiva: molte possibilità esistono ancora di correggere e depotenziare in senso quantitativo la norma, per vie giuridiche o per vie regolamentari al limite della liceità.

Innanzitutto la materia urbanistica ed edilizia è soggetta alla potestà legislativa concorrente delle Regioni (che nel testo del DL viene esplicitamente menzionata) e dunque allo Stato resta solo la possibilità di esprimersi su principi fondamentali. Sembra lecito affermare che la lettera della disposizione enuncia un principio generale 20 , ma probabilmente la indicazione di una percentuale minima di tassazione (50%) potrebbe essere considerata una normativa “di dettaglio” da una Regione più attenta al beneficio privato che a quello pubblico. In secondo luogo, in ambito di regolamentazione, è possibile che i veri plusvalori possano essere fortemente ridotti nel caso si accettino fra gli oneri deducibili, di diritto o di fatto, supervalutazioni del costo iniziale dei terreni, sovrastime del valore di opere realizzate o di cessioni fondiarie, interessi vari ed extra-profitti del tutto non-normali. Come si diceva in precedenza, sarebbe inaccettabile, una volta adeguatamente definite le entrate e i redditi, veder ricomparire le rendite dal lato dei costi.

  1. Conclusioni.

Nel nostro paese la fiscalità urbanistica degli ultimi cinquant’anni appare segnata dal peccato originale iniziale (la caduta della proposta di riforma Sullo e l’assenza successiva di riforme complessive) e da una crescente inadeguatezza delle riforme parziali successive (dalla legge Bucalossi in poi), a fronte delle trasformazioni succedutesi in particolare a partire dalla fine degli anni ’70: la grande trasformazione avviatasi con la de-industrializzazione delle grandi aree urbane, i processi di globalizzazione e di decentramento produttivo internazionale, la bolla immobiliare degli anni 1996-2007, la crisi che perdura dal 2008. In tutto questo tempo, la rendita immobiliare di trasformazione ha goduto di un trattamento di favore da parte delle regolamentazioni e delle pratiche

18 La disposizione legislativa integra il Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia (DPR 6.6 n. 380, art. 16(L) comma 4-ter) come segue: “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale (...) in relazione (...) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. Tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest'ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.” 19 Dobbiamo probabilmente il suo inserimento all’intento di bilanciare politicamente una norma, la Sblocca Italia, tutta orientata alla deregulation e alla centralizzazione. 20 Alberto Roccella mi ricorda che il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi, approvato in via definitiva dal Parlamento e sul quale è preannunciato il referendum nel prossimo autunno, attribuisce allo Stato potestà legislativa esclusiva per "disposizioni generali e comuni sul governo del territorio"; ma tale potestà dovrebbe esplicitarsi in un apposito e generale disegno di legge, non nella conversione in legge di un decreto-legge, come avviene oggi.

La classe politica, nazionale ma soprattutto locale, è chiamata a una prova di maturità: accettare una riforma della fiscalità immobiliare già formalmente acquisita che consente di conseguire nuove risorse per rilanciare qualità ed efficienza delle nostre città, contrastando con normative e regolamenti appropriati le possibilità di aggirarla; completare la riforma attraverso una migliore valutazione pubblica dei valori immobiliari relativi (riforma del catasto); allargare la forbice fiscale fra operazioni immobiliari generiche e operazioni desiderabili e prioritarie – rigenerazione urbana, consumi di suolo, riconversioni energetiche, edilizia sociale - in modo da rendere finalmente efficaci gli incentivi approntabili.

Riferimenti Bibliografici

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Camagni 2016 Riforma fiscalità urbanistica

Corso: Economia del territorio e dell'ambiente (ST03 60248)

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Pubblicato in: A. Petretto, P. Lattarulo (2016), Contributi sulla riforma dell’imposizione locale in
Italia, Carocci, Roma
La riforma della fiscalità urbanistica
Roberto Camagni
(Politecnico di Milano)
1. Introduzione: città, rendita fondiaria e tassazione 1.
La città è un grande bene collettivo, creato attraverso investimenti e decisioni sia pubbliche che
private. Essa genera vantaggi collettivi, ‘esternalità’, di diversa natura che favoriscono il benessere
dei cittadini e l’efficienza delle attività produttive insediate. In conseguenza, il valore economico
delle sue singole parti, dei singoli luoghi o spazi urbani, non è determinato dall’azione singola, ma
dall’azione collettiva, esterna al singolo attore: dal fatto cioè che si verificano sinergie ed esternalità
incrociate con tutti gli altri luoghi, grazie alla prossimità, alla presenza di infrastrutture e di capitale
fisso sociale, alla presenza di una larga varietà di attività.
Questo processo generale di valorizzazione opera su tutti i suoli e sugli immobili urbani
indistintamente, ed appare in larga misura proporzionale alla dimensione urbana (grazie alle
cosiddette ‘economie di agglomerazione’)2. In conseguenza, gli economisti classici giustamente
affermavano che i valori fondiari urbani dipendono dallo “sviluppo complessivo della società”. Questi
vantaggi e questi conseguenti valori esistono sempre, ed esiste sempre il loro ‘duale’ monetario, la
rendita del suolo. La rendita è dunque ineliminabile ed anzi in larga misura deriva da una efficace,
efficiente e lungimirante pianificazione urbana ma, come hanno insegnato gli stessi economisti
classici (e anche un grande neo-classico come Alfred Marshall) può, e deve, essere adeguatamente
tassata3. Alternativamente, è il settore pubblico che dovrebbe assegnare a se stesso la titolarità
dell’incremento di valore dei suoli, attraverso la costituzione di un demanio comunale con acquisti
preventivi di terreni agricoli periurbani, variazioni nelle relative destinazioni d’uso,
infrastrutturazione e vendita o concessione ai privati costruttori in diritto di superficie 4.
1 Desidero ringraziare il giurista (e amico) Alberto Roccella per avermi segnalato il contributo di Ulisse Gobbi al tema
qui trattato e per le utili considerazioni sull’art. 17 dello “Sblocca Italia”.
2 Questo processo di valorizzazione si distingue dunque - e si aggiunge nelle valorizzazioni delle singole unità fondiarie
e immobiliari alla ‘rendita differenziale, che emerge dalle caratteristiche, differenziali appunto, delle singole unità in
termini di accessibilità, qualità urbanistica, ambientale o estetica, e configura coerentemente, in termini più moderni,
quella che Marx ha chiamato la ‘rendita assoluta’. Si veda: Camagni, 2011, cap. 6.4. Esso giustifica il divario che si
manifesta al margine esterno della città costruita fra valori urbani e valori agricoli, dal quale origina gran parte della
speculazione fondiaria.
3 Marshall (1905, p. 619), sulla scorta di Smith (1977, p. 834-35), si spinge fino ad affermare che tali rendite potrebbero
anche essere tassate al 100% senza generare sconvolgimenti economici (ma certamente generando sconvolgimenti
politici!). Interessante notare come il passo in oggetto, in odore di ‘georgismo’, scompaia nell’ultima edizione autorizzata
da Marshall del 1920. Si veda Camagni, 2011, p. 193.
4 E’ questa la ricetta, utilizzata per lunghi periodi in altri paesi come ad esempio la Francia, l’Olanda e i paesi nordici, che
il grande economista italiano dell’inizio del secolo scorso, Ulisse Gobbi, proponeva formalmente come necessaria riforma
legislativa (Gobbi, 2006) e che trovava l’approvazione della maggior parte degli economisti liberali dell’epoca. La rendita
intesa concettualmente come ‘reddito non guadagnato’ da parte degli economisti classici viene da lui confermata:
“l’aumento di valore del terreno edilizio costituisce un guadagno che non è il compenso di nessuna opera utile” (…), un
compenso “goduto da uno speculatore” che, impegnato nella semplice compravendita di terreni, opera come “un’industria
perfettamente inutile alla società” che realizza “semplicemente uno spostamento di ricchezza da certe persone a certe
altre” (ibid., p. 2). La conseguente proposta operativa era al centro della sfortunata proposta di riforma Sullo del 1963.