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I principi - appunti di lezione di economia urbana

appunti di lezione di economia urbana
Corso

Economia urbana (096343 )

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Anno accademico: 2020/2021
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Politecnico di Milano

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PRINCIPI GENERALI DELL’ECONOMIA URBANA

Ciascuna disciplina considera la città, fenomeno complesso per eccellenza, secondo particolari angolazioni o “principi”. Avviene così per la geografia urbana, la sociologia urbana, l’economia urbana ecc. L’urbanista, il cui campo disciplinare, analitico ed operativo, è la città fisica con i suoi spazi e la sua forma, è interessato a conoscere, per grandi linee, i punti di vista, o principi, delle altre discipline. Essi permettono di conoscere meglio cause ed effetti delle continue trasformazioni degli spazi e delle forme urbane. Particolarmente interessante, in periodi come quello attuale di cambiamenti strutturali nei processi di trasformazione urbana, è il punto di vista dell’economista. Esso ha permesso di rispondere ad alcune domande fondamentali. Useremo, come testo di riferimento, “Economia urbana, principi e modelli teorici” di R. Camagni (NIS, 1992) ed in particolare la parte I, dedicata appunto ai “principi”. Camagni individua cinque “grandi principi economici di organizzazione dello spazio urbano... [che] ci consentono di rispondere ad alcune domande fondamentali sulla natura, la struttura, le leggi di movimento della città” (pp. 37-38)

  • Principio di agglomerazione (perché esiste la città?) “Le città esistono e sono esistite nella storia perché gli uomini hanno trovato più vantaggioso ed efficiente gestire i propri rapporti personali, sociali, economici e di potere in modo spazialmente concentrato”. (p. 43). Gli elementi che determinano vantaggi se le attività si svolgono “in modo spazialmente concentrato” si dicono “fattori di agglomerazione”: essi danno luogo a “economie di agglomerazione”. I fattori di agglomerazione sono un tipo particolare di “fattori di localizzazione”, e possono riguardare attività industriali, di servizio, residenziali ecc. In tali attività accade spesso che solo raggiungendo una dimensione, o “scala”, più grande si può conseguire maggiore efficienza nell’attività medesima: in questi casi si parla di “economie di scala”. Per un lungo periodo (almeno le due prime rivoluzioni industriali) le “economie di scala” si sono tradotte in “economie di agglomerazione”. Nella teoria di Weber (vedi la scheda A su “le teorie classiche di localizzazione industriale”) i fattori di agglomerazione (e le conseguenti economie) sono classificate come: fattori di agglomerazione interni a un impianto (o, in elaborazioni successive, interni a un’impresa); fattori di agglomerazione esterne all’impianto (o all’impresa) ma interni all’industria; fattori di agglomerazione esterne all’impianto (o impresa) e all’industria, o di urbanizzazione: sono i vantaggi che derivano dalla possibilità di usare un gran numero di infrastrutture, attrezzature e servizi presenti nell’ambiente urbano.

  • Principio di accessibilità (dove, nella città?) “Il principio di accessibilità sta alla base dell’organizzazione dello spazio urbano e scaturisce dalla competizione fra le diverse attività economiche per assicurarsi le localizzazioni più vantaggiose” (p. 75). In genere “accessibilità significa superamento della barriera imposta dallo spazio al movimento di persone e cose e allo scambio di beni, servizi, informazioni.” (ivi). Quanto più alta è l’accessibilità, tanto maggiori sono la disponibilità di fattori produttivi e beni intermedi per l’impresa, di servizi per le persone ecc., tanto minori sono i costi/tempi che si debbono sostenere per raggiungere tali beni e servizi. Se tutte le imprese e le persone avessero le stesse necessità/possibilità di ottenere la massima accessibilità si avrebbe una loro concentrazione massima nelle aree centrali della città, dove l’accessibilità è massima. In realtà imprese e persone percepiscono vantaggi diversificati da una maggiore accessibilità e quindi hanno diverse

necessità/possibilità di pagare per ottenerla. Compare in tal modo la “rendita differenziale” che è il prezzo della maggiore accessibilità di un’area, e che diviene - in base alla competizione tra le diverse attività (imprese, persone ecc.) per assicurarsi i vantaggi derivanti dalla maggiore accessibilità - un principio ordinatore della distribuzione delle attività nello spazio urbano. La prima analisi del “principio di accessibilità” si fa risalire a J. H. von Thunen (vedi la scheda A su “le teorie classiche di localizzazione industriale”); importanti approfondimenti sono stati svolti dalla “scuola di Chicago” ( anni Venti), che ha interpretato la struttura sociale della città prima attraverso un modello a cerchi concentrici (Park, Burgess e McKenzie), poi attraverso un più articolato modello a settori (Hoyt); da Losch (40’s) e da Alonso (60’s) che hanno approfondito gli aspetti generali del mercato dei suoli urbani e della localizzazione delle residenze e delle attività produttive. Fenomeni anche recenti come la concentrazione centrale delle attività direzionali (che sono attività a maggior valore aggiunto e quindi in grado di “pagare” rendite differenziali più elevate) o il ritorno di ceti a reddito medio-alto nelle zone centrali (gentrification) sono interpretabili alla luce del principio di accessibilità.

  • Principio di interazione spaziale (come, nella città?) “Ogni attività localizzata nello spazio fisico, sia essa una unità di produzione, una unità demografica o una città, sviluppa con l’ambiente circostante una complessa rete di rapporti bidirezionali che si svolgono su molteplici livelli” (p. 95). Dalle relazioni commerciali ai movimenti pendolari, dallo scambio di informazioni e messaggi alle più diverse forme di integrazione e collaborazione tra attività, persone, gruppi, la gamma e il numero di tali “rapporti” sono quasi infiniti e costituiscono uno degli elementi primari della vita stessa delle città. “Questi rapporti sembrano organizzarsi sulla base di campi gravitazionali, sensibili alla dimensione delle attività localizzate sul territorio e alla loro distanza relativa”. Una delle teorie più fertili in proposito è quella “gravitazionale”, così detta in analogia al modello newtoniano di gravitazione universale. L’idea che una serie di movimenti territoriali, da quelli migratori a quelli per gli acquisti al dettaglio, sia direttamente proporzionale alla “massa” dei centri di origine/destinazione, e inversamente alla reciproca distanza, si è affermata tra la fine dell’800 e gli anni 30’s. Nel secondo dopoguerra, a partire dagli studi di G. Zipf, si sono moltiplicate le applicazioni di modelli gravitazionali per l’interpretazione di molti fenomeni: gli spostamenti di viaggiatori in corriera o in treno, le chiamate telefoniche tra coppie di città, l’area di diffusione dei quotidiani ecc. In genere il tipo di formula adottata è stato:

 

  

Tab K Pa Pb  ab

In cui T misura l’intensità della interazione tra le unità territoriali a e b; K è una costante che viene stimata in termini econometrici; P è la popolazione, in genere assunta come espressione della massa delle unità territoriali;  e  sono in genere ipotizzati uguali a 1:  può essere uguale a 1 o 2 d è la distanza fra le due unità territoriali

  • Principio di gerarchia (quali città e dove?) “L’osservazione della realtà empirica... ci mostra... non solo la coesistenza di diverse dimensioni urbane, ma anche come a queste ultime corrispondano funzioni economiche differenti, e come esistano distanze

Il principio di gerarchia, e la sua più importante traduzione teorica (central places theory) sono stati assai fertili di applicazioni per circa mezzo secolo, fino, ad esempio, alla redazione del celebre “Atlante SOMEA”, che ha descritto il sistema urbano italiano secondo un criterio di gerarchia dimensionale dei centri e di natura dei tipi di servizi in

essi presenti. Negli anni più recenti alcune indagini hanno messo in evidenza il ridursi, soprattutto nelle regioni a sviluppo più maturo, delle relazioni territoriali di natura gerarchica, e il comparire di relazioni piuttosto interpretabili secondo modelli di tipo “reticolare” (vedi Camagni pp136-141; vedi Dematteis cit. in Scheda B, “La transizione nei processi di urbanizzazione: aspetti generali”).

  • Principio di competitività (come si sviluppano le città? ) “Da molto tempo si è riconosciuta la necessità di distinguere in modo semplificato, all’interno delle funzioni che si svolgono nella città, fra quelle che si rivolgono ad una domanda esterna e quelle che, al contrario si rivolgono a soddisfare i bisogni della popolazione residente. Le prime [funzioni di base].. .plasmano le caratteristiche specifiche della città, la sua specializzazione e il suo ruolo nella divisione spaziale del lavoro; le seconde [funzioni non di base].. .permettono il sostentamento della popolazione urbana impiegata nelle prime”. (p. 147) La città, considerata secondo questo principio, è paragonabile ad una grande macchina per produrre, che entra in competizione con altre macchine (altre città) per collocare sui grandi mercati aperti i propri prodotti: Il reddito che così si genera serve ad importare ciò che occorre per il sostentamento della popolazione residente. E’ perciò evidente che le attività “di base” sono quelle che configurano il profilo economico-funzionale della città (city-funding), mentre le altre sono “di riempimento” (city-filling). Perché una città prosperi deve raggiungere livelli significativi di competitività esterna, che possono essere conseguiti utilizzando la propria dimensione per ottenere particolari economie di agglomerazione; valorizzando le “vocazioni produttive” che possono derivare dalla sua storia più o meno recente; integrando in specifiche filiere produttive attività industriali e relativi servizi, e così via. Si parla spesso dei vantaggi competitivi di una città, o area metropolitana, rispetto ad altre, per indicare i fattori che le permettono di produrre beni e/o servizi che si impongono nella competizione rispetto a quelli prodotti da altre città o aree metropolitane

dove X è una variabile disaggregata settorialmente e territorialmente (in genere si usa l’occupazione rilevata dai censimenti); i indica il settore di attività; c l’unità territoriale che si prende in esame (quartiere o città o area metropolitana, o regione); n indica l’area di riferimento (in genere la nazione se si analizzano città o aree metropolitane o regioni; la città se si analizza un quartiere). I Quozienti permettono di confrontare la quota di ogni settore di attività sul totale delle attività urbane con la stessa quota nell’area di riferimento: allorché il rapporto supera l’unità si considera la porzione eccedente come “espressiva di un surplus netto rispetto alle esigenze della domanda locale, e quindi di esportazioni nette” (p). Quanto più il quoziente di un settore supera l’unità, tanto più alta è la “specializzazione” della città in quelle attività.

Una analisi delle trasformazioni delle basi economiche delle città centrali e delle aree urbane italiane fondata sull’uso dei QL è in D. Cecchini e G. Goffredo, “Dinamiche delle funzioni urbane e Mezzogiorno”, 1990 (v. punto 1 del Programma)

IL MODELLO DEL “CICLO DI VITA URBANO”

Il modello noto come «degli stadi di sviluppo» o del «ciclo di vita urbano», è stato formulato alla fine degli anni '70 negli USA per spiegare l'arresto della crescita demografica e manifatturiera delle grandi aree urbane. Nella sua prima formulazione 1[1] un gran numero di evidenze empiriche relative all’arresto della crescita urbana è messo in relazione al ciclo di vita dei prodotti industriali secondo la descrizione classica elaborata negli anni ’30, in base alla quale le singole industrie, o i singoli prodotti industriali, passano attraverso: “a period of experimentation, a period of rapid growth, a period of diminished growth, and a period of stability or decline” 2[2]. Il declino manifatturiero (e quindi demografico) di molte aree urbane è spiegato con l’ingresso delle loro attività “di base” nel quarto periodo del ciclo industriale (stability or decline). Le città, e le loro “aree urbane”, sono viste, all’interno del “principio di competitività”, come grandi macchine per produrre: la loro sorte è strettamente legata a quella delle loro “industrie di base”. Negli anni seguenti il modello è stato messo a punto in Europa in celebri ricerche condotte da alcuni urbanisti ed economisti urbani inglesi, e dal “gruppo di Vienna” 3[3]. Queste ricerche riducono l’enfasi con la quale il “ciclo di vita urbano” era stato assimilato al “ciclo di vita del prodotto”, ed elaborano un paradigma interpretativo più complesso e generale che pone in relazione i successivi stadi di urbanizzazione - definiti in termini di tassi di variazione demografica delle città centrali e delle rispettive periferie (hinterland) - con le successive fasi dello sviluppo industriale generale. Secondo tale paradigma a ciascuno dei tre stadi di urbanizzazione finora succedutisi nelle economie industrializzate, e cioè il primo della «concentrazione urbana», il secondo della «crescita sub - urbana», il terzo della «de - urbanizzazione», corrisponde una specifica fase della industrializzazione e del progresso tecnico (v. punti 1 e 1 del Programma e relative letture).

1 2 3

e così legate alle dinamiche dei valori immobiliari, da rendere molto incerta la previsione del passaggio dal terzo stadio della de - urbanizzazione al quarto della ri – urbanizzazione. Il contributo che il modello del ciclo di vita ha dato alla conoscenza dei fenomeni urbani è stato rilevante, ma limitato alla interpretazione sintetica della storia recente dei processi di urbanizzazione nei paesi industrializzati, piuttosto che alla previsione delle dinamiche future.

Dunque, analogamente a quanto è avvenuto per la teoria della base economica urbana, anche il modello degli stadi di sviluppo se depurato da contenuti previsivi, può essere considerato come un modello sintetico di descrizione e comparazione delle fasi evolutive nelle dinamiche spaziali dei sistemi urbani di diversi paesi e di diverse regioni. Entro questi limiti esso si è mostrato di notevole utilità.

5[1] Norton, R., City Life-Cycles and American Urban Policy, Academic Press - New York, S. Francisco, London, 1979. 6[2] Norton, cit, p. 7[3] Hall, P., Hay, D., Growth Centers in the European Urban System, London,1980. Berg, L. van den, et al., Urban Europe, a Study of Growth and Decline, London,1982,

8[4] Chesire, P. C., Hay, D., Urban problems in Western Europe, an economic analysis, London, 1989.

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angolazioni o “principi”. Avviene così per la geografia urbana, la sociologia urbana, l’economia
urbana ecc.
Lurbanista, il cui campo disciplinare, analitico ed operativo, è la città fisica con i suoi spazi e la
sua forma, è interessato a conoscere, per grandi linee, i punti di vista, o principi, delle altre
discipline. Essi permettono di conoscere meglio cause ed effetti delle continue trasformazioni degli
spazi e delle forme urbane.
Particolarmente interessante, in periodi come quello attuale di cambiamenti strutturali nei processi
di trasformazione urbana, è il punto di vista dell’economista.
Esso ha permesso di rispondere ad alcune domande fondamentali.
Useremo, come testo di riferimento, “Economia urbana, principi e modelli teorici” di R. Camagni
(NIS, 1992) ed in particolare la parte I, dedicata appunto ai “principi”.
Camagni individua cinque “grandi principi economici di organizzazione dello spazio urbano. . .
[che] ci consentono di rispondere ad alcune domande fondamentali sulla natura, la struttura, le leggi
di movimento della città” (pp. 37-38)
-Principio di agglomerazione (perché esiste la città?) “Le città esistono e sono esistite
nella storia perché gli uomini hanno trovato più vantaggioso ed efficiente gestire i propri
rapporti personali, sociali, economici e di potere in modo spazialmente concentrato”.
(p. 43). Gli elementi che determinano vantaggi se le attività si svolgono “in modo
spazialmente concentrato” si dicono “fattori di agglomerazione”: essi danno luogo a
economie di agglomerazione”. I fattori di agglomerazione sono un tipo particolare di
“fattori di localizzazione”, e possono riguardare attività industriali, di servizio,
residenziali ecc.
In tali attività accade spesso che solo raggiungendo una dimensione, o “scala”, più
grande si può conseguire maggiore efficienza nell’attività medesima: in questi casi si
parla di “economie di scala”. Per un lungo periodo (almeno le due prime rivoluzioni
industriali) le “economie di scala” si sono tradotte in “economie di agglomerazione”.
Nella teoria di Weber (vedi la scheda A su “le teorie classiche di localizzazione
industriale”) i fattori di agglomerazione (e le conseguenti economie) sono classificate
come: fattori di agglomerazione interni a un impianto (o, in elaborazioni successive,
interni a un’impresa); fattori di agglomerazione esterne all’impianto (o all’impresa) ma
interni all’industria; fattori di agglomerazione esterne all’impianto (o impresa) e
all’industria, o di urbanizzazione: sono i vantaggi che derivano dalla possibilità di
usare un gran numero di infrastrutture, attrezzature e servizi presenti nell’ambiente
urbano.
-Principio di accessibili (dove, nella città?) “Il principio di accessibilità sta alla base
dell’organizzazione dello spazio urbano e scaturisce dalla competizione fra le diverse
attività economiche per assicurarsi le localizzazioni più vantaggiose” (p. 75). In genere
“accessibilità significa superamento della barriera imposta dallo spazio al movimento di
persone e cose e allo scambio di beni, servizi, informazioni.” (ivi). Quanto più alta è
l’accessibilità, tanto maggiori sono la disponibilità di fattori produttivi e beni
intermedi per l’impresa, di servizi per le persone ecc., tanto minori sono i costi/tempi
che si debbono sostenere per raggiungere tali beni e servizi.
Se tutte le imprese e le persone avessero le stesse necessità/possibilità di ottenere la
massima accessibilità si avrebbe una loro concentrazione massima nelle aree centrali
della città, dove l’accessibilità è massima. In realtà imprese e persone percepiscono
vantaggi diversificati da una maggiore accessibilità e quindi hanno diverse
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