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Locke e il diritto naturale Bobbio

appunti del libro
Corso

Storia della filosofia (99710)

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Anno accademico: 2020/2021
AutoreNorberto Bobbio
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Sapienza - Università di Roma

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Secondo anno

Anteprima del testo

Locke e il diritto naturale, Bobbio

Premessa: “Parole”, Ernest Gellner: giusnaturalismo e positivismo giuridico sono due modi diversi di considerare il fenomeno

giuridico, che non si escludono necessariamente a vicenda, rappresentano due prospettive possibili. Il giusnaturalismo rappresenta il momento della presa di posizione di fronte al diritto esistente, ci viene incontro nell’esigenza di mutare o giustificare il diritto vigente; il positivismo giuridico, invece, il momento della constatazione storica che un certo diritto esiste e ha determinate caratteristiche. Il saggio è diviso in tre parti: I: il diritto naturale e il suo significato storico (trattazione generale sul giusnaturalismo); II: Locke e il diritto naturale (studio del pensiero giusnaturalistico di Locke); III: il diritto naturale e il governo civile (aspetti del sistema politico e giuridico di Locke).

Il diritto naturale e il suo significato storico:

  1. Tre libri da leggere: (filosofia del diritto o ius naturae/ius naturale) Leo Strauss, Diritto naturale e storia: difesa ad oltranza del diritto naturale, del suo valore storico e del suo significato presente. Rappresenta la “reductio ad Hitlerum” della polemica giusnaturalistica, secondo la quale l’abbandono della credenza nel diritto naturale di un diritto superiore rispetto a quello positivo e avente valore oggettivo sarebbe stata la causa dell’avvento dei regimi totalitari (“Gesetz ist Gesetz”). Il libro comincia con un attacco allo storicismo (Weber), risale alle fonti del pensiero greco, espone la storia del giusnaturalismo classico e illustra la svolta avvenuta con quello moderno, richiamandosi a Hobbes e Locke. Pietro Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna: tentativo di mostrare che il giusnaturalismo è morto e non può resuscitare in quanto è in contrasto con l’etica moderna. Il giusnaturalismo ha sempre rappresentato un’etica della legge, ovvero un’etica che subordina la libertà della coscienza ai dettami di una legge oggettiva; l’etica moderna è invece una etica della coscienza individuale (“etica antagonistica”), il giusnaturalismo è legalismo. Alessandro Passerin D’Entrevrèves, La dottrina del diritto naturale: esaminare ciò che è vivo e ciò che è morto della dottrina giusnaturalistica, di mettere in rilievo la funzione storica e le tracce lasciare nella teoria giuridica moderna. L’opera è divisa in due parti: una storia e una teorica, in cui vengono esaminati i tre principali contributi lasciati al pensiero giuridico: a) definizione del diritto come norma qualificativa di comportamento; b) distinzione tra diritto e morale; c) aver mantenuto fede all’idea della giustizia superiore alle leggi positive. “La mia posizione è più vicina a quella del d’Entrèves”.

  2. La rinascita del diritto naturale: movimento odierno del pensiero giuridico: celebri “conversioni” da parte di autori che erano avversi al giusnaturalismo prima della guerra e sono diventati giusnaturalisti dopo, di fronte al crollo di valori provocato dai regimi totalitari (Gustav Radbruch, Carlo Antoni discepolo di Croce). Il diritto naturale continua, dalla Grande Guerra, a rinascere (p); ma già alcuni anni prima della guerra, in circostanze completamente diverse, era apparto il saggio di Charmont “La rinascita del diritto naturale”, dunque ci sarebbero buone ragioni per sostenere che si fosse parlato di questa rinascita già all’inizio del XX secolo. Di fronte alla continua rinascita si è sostenuto che questa dottrina non fosse mai morta. Arnold Brecht, invece, ha distinto dai greci ai giorni nostri 8 periodi in cui si susseguono età giusnaturalistiche e non. Bobbio ritiene necessaria una distinzione tra esigenza e teoria giusnaturalistica: se si guarda all’esigenza il giusnaturalismo non può rinascere perché non muore mai. La rinascita odierna del giusnaturalismo coincide con il riemergere dell’eterna esigenza dell’idea di giustizia; mentre la teoria del diritto naturale è tanto trasformata che si stenta a riconoscerla (Lombardi, Etica della persona).

  3. Qualche osservazione sul concetto di natura: per capire che cosa si intende per “diritto naturale” bisogna rifarsi al concetto di natura, dal momento che questo diritto si fonda sulla natura. Natura è un concetto generalissimo tramandato dai greci: Aristotele, Metafisica➙ nella classificazione delle scienze distingue quelle che hanno per oggetto le cose naturali (scienze fisiche) e quelle che hanno per oggetto il fare umano (distinto a sua volta in ποιέω e πράσσω). Il termine natura abbraccia in una sola categoria tutte le cose che non sono prodotte dall’uomo, che esistevano prima dell’uomo e continueranno ad esistere dopo. Tutti i termini antitetici che sono stati contrapposti al concetto di natura fanno sempre riferimento alla contrapposizione tra ciò che l’essere umano può dominare e ciò che sfugge al suo controllo: natura-arte, natura-convenzione, natura-società, natura-cultura... Di fronte all’antitesi natura-non natura i greci si sono domandati a che ambito appartenesse il diritto: la risposta fu ambivalente, il diritto è e natura e arte (da questa risposta è nata la dicotomia diritto naturale - diritto positivo). Oggi appare strano considerare una parte del diritto come naturale, poiché è prodotto dalla società, o dalla civiltà, dalla storia o dallo spirito. Ma bisogna tener conto del fatto che nelle società antiche il diritto era consuetudinario, cioè un insieme di regole che si tramandano di generazione in generazione e accolto come sempre esistente; il diritto legislativo era un fenomeno eccezionale (Pascal, la natura è una specie di primo costume). Nel medioevo la natura è il prodotto dell’intelligenza della potenza creatrice di Dio; all’inizio dell’età moderna viene intesa come ordine razionale dell’universo, per diritto naturale l’insieme di leggi della condotta umana (diritto trovato, non posto dall’uomo).

Tre diverse definizioni di diritto naturale:

  • Aristotele➙ il diritto naturale è dappertutto in vigore, dunque ha una validità universale e le regole che esso indica sono sottratte alle nostre opinioni, e quindi stabilisce cosa è giusto o ingiusto indipendentemente da ciò che pensano gli uomini. Il diritto positivo muta da luogo a luogo, dunque è un diritto a validità particolare, tutta la sfera di azioni indifferenti (quelle che se non ci fosse il comando o il divieto sarebbero libere), non regolata dal diritto naturale, è affidata alla regolamentazione della legge positiva. Secondo la dottrina aristotelica diritto naturale e diritto positivo si distinguono rispetto al contenuto, alla materia (rispettivamente: comportamenti buoni o cattivi in sé stessi; la materia del diritto positivo inizia dove cessa quella del diritto naturale). Aristotele nella Retorica dà la preferenza al diritto naturale: “se la legge scritta è contraria alla nostra causa, bisogna servirsi della legge comune e dell’equità in quanto è più giusta” (esempio: Antigone). Alla distinzione tra naturale e positivo corrisponde quella tra diritto comune e diritto proprio.
  • San Tommaso➙ la supremazia del diritto naturale diventa più netta con l’avvento del cristianesimo, attraverso il quale la legge naturale si inserisce in una concezione teologica, diventando dunque legge di Dio. L’uomo, essendo un essere libero può violare queste leggi, ma queste ultime non vengono meno solo per il fatto di essere violate. La legge naturale viene identificata coi dieci Comandamenti e con i precetti di vita predicata da Cristo. Distingue quattro forme di leggi: lex aeterna: ragione divina che governa il mondo; lex naturalis: precetto unico e generalissimo, che consiste nella massima “bonum faciendum, male vitandum”; lex humana (o humanitatus posita): costituita da tutti i precetti particolari che la ragione riesce a ricavare dalle leggi naturali, nelle diverse circostanze, per far fronte alle situazioni che i rapporti umani creano. Secondo S. Tommaso tutta la sfera della condotta umana è già potenzialmente sottoposta alla direzione della legge naturale e il diritto positivo viene rappresentato come un adattamento graduale della massima generale alla situazione concreta. In questa concezione la legge umana non inventa nulla. Il passaggio dalla legge naturale a quella umana può avvenire per conclusionem (conclusioni necessarie da principi evidenti) o per determinationem. Per una legge positiva la corrispondenza al diritto naturale è una condizione di validità, dunque una legge positiva per essere valida deve essere anche giusta.
  • Hobbes➙ appartiene alla tradizione del giusnaturalismo, ma è anche considerato come un anticipatore del positivismo giuridico (dottrina di filosofia del diritto che considera come unico possibile diritto il diritto positivo). Hobbes adopera la dottrina del diritto naturale per rafforzare il potere civile (diversamente da Locke). Distingue la legge divina in due specie, la legge naturale, ovvero quella che Dio ha manifestato agli uomini per mezzo della sua parola e quella positiva, che Dio rivela attraverso le parole dei profeti. Per Hobbes le leggi naturali sono quelle che nello stato di natura (non esistono altre leggi che quelle naturali, che però obbligano soltanto in coscienza) non vigono ancora e nello stato civile non vigono più. Lo stato di natura è uno stato di continua insicurezza, l’obbligo di rispettare le leggi vale in quanto reciprocamente rispettato, se non esiste tale reciprocità l’obbligo viene meno. Proprio perché lo stato di natura è uno stato di incertezza gli uomini aspirano a cambiarlo e a passare allo stato civile: gli individui si mettono d’accordo nel rinunciare a tutti i diritti per trasferirli al sovrano. Nello stato civile non esiste altro diritto oltre a quello posto dal sovrano, ovvero il diritto positivo; le leggi naturali valgono nei confronti del sovrano, che però ha il diritto di interpretarle. I sudditi non hanno il diritto di sindacare se ciò che i sovrani comandano sia giusto o no. La legge naturale che obbliga i sudditi ad obbedire al sovrano, a differenza di quella del sovrano verso i sudditi, è un obbligo effettivo. Nella dottrina giusnaturalistica tradizionale, l’individuo è tenuto a ubbidire alle leggi naturali prima che alle leggi civili.
  1. Uno o due giusnaturalismi? Una dottrina può dirsi giusnaturalistica se: a) accoglie il diritto naturale come diritto; b) afferma che il diritto naturale è superiore a quello positivo. Tenendo conto delle combinazioni possibili si possono immaginare quattro teorie:
  1. si afferma che esiste soltanto il diritto naturale;
  2. si afferma che esiste soltanto il diritto positivo (teoria che caratterizza il positivismo giuridico);
  3. si afferma che esistono entrambi e che stanno sullo stesso piano;
  4. si afferma che esistono entrambi ma che il diritto positivo è più forte del diritto naturale. Esiste una sola forma di giusnaturalismo? Problema molto discusso, si tende a sostenere che esistono due forme: il giusnaturalismo classico o medievale e il giusnaturalismo moderno. Coloro che accettano la distinzione la sostengono con diversi argomenti: 1a il giusnaturalismo classico non ha mai avuto la pretesa di elaborare un sistema completo di prescrizioni, inoltre ammette e giustifica lo sviluppo storico, mentre il giusnaturalismo moderno non fa nessuna concessione allo sviluppo storico dell’umanità; 1b il giusnaturalismo medievale prende le mosse dalla natura sociale dell’uomo, quello moderno dalla sua natura egoistica (quindi società come aggregato meccanico di individui). Il giusnaturalismo moderno sopravvaluta la sfera del privato, ha una concezione negativa dei compiti dello stato; il giusnaturalismo medievale si propone come un’etica personalistica, come una concezione comunitaria della società. 2a il giusnaturalismo moderno propone un nuovo concetto di natura, ovvero l’insieme delle condizioni di fatto di cui gli individui devono tener conto per regolare i modi della loro vita in comune (passaggio ad una concezione empirica della natura), dunque le leggi naturali sono espedienti ricavati dall’osservazione allo scopo di regolare i rapporti di convivenza. 2b il giusnaturalismo tradizionale considera la legge naturale dal punto di vista degli obblighi che da quella derivano (sovrano dovere di non trasgredire le leggi naturali), quello moderno dal punto di vista dei diritti che quella attribuisce.
  1. In una sola teoria della morale molti contenuti diversi** Secondo Bobbio c’è una sostanziale unità in tutte le correnti giusnaturalistiche. Osservando i quattro argomenti precedenti è evidente che sono validi solo se riferiti ad Hobbes (vedi pagina 38) ma quest’ultimo è un giusnaturalista solo in apparenza.

  2. Dove solo caduti i regimi totalitari sono state emanate costituzioni che stabiliscono limiti di fatto ma anche di diritto al potere legislativo;

  3. Da parte degli individui il potere assoluto dello stato è diventato bersaglio di colpi ripetuti e mortali;

  4. Tra i giudici si fanno strada idee favorevoli a una maggiore latitudine di giudizio e a considerare la norma generale una direttiva piuttosto che un comando vincolante. Il mito di un diritto di natura è esaurito e non rinasce, ciò che continuamente rinasce è il bisogno di libertà contro l’oppressione, di uguaglianza, di pace. Più che di una rinascita del giusnaturalismo si dovrebbe parlare dell’eterno ritorno di qui valori che rendono la vita umana degna di essere vissuta.

Locke e il diritto naturale

  1. Bibliografia: alla morte di Locke che non lasciava eredi diretti, tutte le sue carte erano andate a finire al cugino Peter King; queste carte rimasero alla famiglia King fino a che l’ultimo discendente le vendette nel 1947 alla Boldleian Library di Oxford (dove si trovano tuttora, note con il nome di Lovelace collection). Da allora fu necessario decifrare la scrittura stenografica che Locke aveva adoperato: il primo fu von Leyden, la seconda opera fondamentale per il rinnovamento degli studi lockiani è l’edizione critica, compiuta da Peter Laslett, dell’opera politica i Due trattati sul governo civile. Il terzo è stato uno studioso italiano, che ha pubblicato due inediti, i saggi sul magistrato civile (se il magistrato possa intervenire sulle questioni indifferenti) e An Essay concerning Toleration. La conoscenza delle carte e dei manoscritti ha influito sullo studio della personalità e del pensiero lockiano. Nel 1957 Maurice Cranston ha pubblicato la prima grande biografia di Locke, fino a quel momento erano state scritte due biografie: Lord King e Fox Bourne. Nel 1960 sono invece state pubblicate tre monografie: - Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo: tratta in tre parti distinte la filosofia politica e giuridica, la filosofia religiosa e la filosofia teoretica; - Polin, La politique morale de John Locke: riguarda il pensiero politico e ha lo scopo di mostrare il valore filosofico di quest’ultimo; - Cox, Locke on War and Peace: studia il problema della pace e della Guerra, connesso con lo studio della legge naturale e dello stato di natura. Gough, Locke’s Political Philosophy; Macpherson, The political theory of possessive individualism: “individualismo possessivo”, ovvero concezione politica e sociale, propria del liberalismo classico, secondo cui il perno della vita sociale è l’individuo singolo che non deve nulla alla società (Locke è il rappresentante di questa concezione).

  2. Cenni sulla vita: nasce nel 1632, in un periodo burrascoso della storia inglese (guerra civile, instaurazione del potere assoluto, ritorno alla monarchia nel 1660). Locke diventerà il teorico del ceto più moderno della società inglese, il ceto mercantile. Nasce a Wrington, da una famiglia della piccola borghesia mercantile. Il padre esercitava la professione di giudice, si era sposato con Agnes Keene, morta quando Locke aveva 22 anni. Il padre partecipò alla guerra civile come capitano dell’esercito rivoluzionario. Nel 1647 andò a Westminster School, dopo un esame diventò King’s scholar, nel 1652 fu ammesso ad un collegio di Oxford, dove ottenne il titolo di Bachelor of arts e Master of Arts. L’educazione impartita nei collegi era retorico-umanistica, la nuova cultura scientifica era pressoché bandita, a esclusione della medicina. Dopo aver conseguito il secondo titolo restò in collegio, nel frattempo il paese attraversava tempi durissimi (Carlo II torna in Inghilterra). Di quegli anni sono i due trattati sul magistrato civile: si ispira alla filosofia hobbesiana (libertà lasciata alla discrezione del sovrano). Viene nominato alla fine del ’60 lecturer in greco, ma avvicinatosi agli studi scientifici (Boyle) rinuncia definitivamente alla carriera ecclesiastica. Nel 1663 viene eletto Censor of Moral Philosophy. Nel 1666 si improvvisa diplomatico, tornato in Inghilterra si dedica di nuovo agli studi scientifici e allarga le sue conoscenze nel campo della medicina. Nel 1665 incontra Lord Anthony Ashley Cooper e diventa il suo medico personale (riesce in una difficile operazione), successivamente diventa il suo consigliere economico e politico (breve carriera politica, influenza delle sue idee politiche evidente negli scritti lockiani). Nel 1667 pubblica l’Essay concerning toleration (si mette dalla parte della libertà contro l’autorità) e nel 1668 Some Considerations of the Lowering of Interest and Raising the Value of Money. Lord Ashley diventa uno dei ministri della Cabala, fa nominare Locke segretario dei Lords proprietari della Carolina. Seguirà un cursus honorum modesto; in questi anni concepimento del Saggio sull’intelligenza umana, pubblica nel 1690. Locke aveva esplorato i vari cambi del sapere, alla filosofia era arrivato tardi, con letture disordinate e discontinue. L’opera principale di Locke è un’analisi delle nostre operazioni mentali, la più grande ricostruzione della fabbrica dell’intelletto. Nel 1672 il protettore di Locke diventò conto con il nome di Lord Shaftesbury, ma l’anno successivo cadde in disgrazia e fu costretto a dimettersi, in seguito dopo diversi errori fu arrestato e costretto all’esilio in Olanda. Nel 1674 anche Locke decide di lasciare l’Inghilterra e si trasferì in Francia fino al 1679; tornato in patria comprò una copia del Patriarcha di Robert Filmer (difesa del potere assoluto del monarca e concezione paternalistica dei rapporti tra sovrano e sudditi). L’opera diventa oggetto di una vasta contesa. Nel 1683 fugge in Olanda, Rotterdam: scrive un estratto del Saggio sull’intelligenza umana e scrive l’Epistola de Tolerantia, pubblicata nel 1690. Probabilmente avvicina l’entourage di Guglielmo d’Orange, futuro re d’Inghilterra. Muore nel 1704.

I due trattati possono essere considerati come un’opera unica, il primo contenente la pars destruens, il secondo la pars construens, ovvero la fondazione del proprio punto di vista. 1. Il primo trattato sul magistrato civile Nel 1660 era uscito un pamphlet di Edward Bagshawe (student del collegio oxoniense), The great question concerning thing indifferent in religious worship, in difesa della tolleranza religiosa. Il primo trattato sul magistrato civile è una confutazione di questo libello, che reca il titolo “Se il magistrato civile possa legittimamente imporre e determinare l’uso di cose indifferenti”: la risposta di Locke è affermativa. Si intendono per cose indifferenti quelle che non sono né comandate né proibite, cioè lasciate al libero giudizio; ovunque vi siano leggi che comandano o proibiscono, queste delimitano una sfera di azioni obbligatorie (in diritto “sfera del lecito”). Le leggi per eccellenza sono quelle naturali, che obbligano indistintamente tutti gli uomini, il diritto naturale costituisce un ordinamento non rigoristico. Sono le cose indifferenti che formano l’oggetto delle leggi positive, nella sfera delle cose regolate dalla legge naturale il potere del sovrano è unicamente di comandare quel che è comandato e viceversa, dunque di rafforzare i dettami della legge naturale; il potere nuovo che ha il sovrano nei confronti dei suoi sudditi è unicamente rispetto alle cose indifferenti (le cose a cui non arriva la legge naturale), che passa nelle mani del sovrano a seguito del passaggio da stato di natura a stato civile (implica una rinuncia). Scrittori liberali e non hanno dato una diversa risposta alla domanda sul limite di questa rinuncia e sull’estensione del potere statale sulle cose indifferenti: il liberale è colui che riconosce che lo stato non ha il diritto di intervenire nelle cose indifferenti, e se lo ha ci sono dei limiti invalicabili; il non liberale colui che afferma che dopo la costituzione dello stato l’individuo non ha più alcun diritto sulle cose indifferenti, la decisione se allargare o restringere questa sfera di libertà residua appartiene unicamente al sovrano.

Tra le cose relative alla religione vi erano anche cose indifferenti ed erano quelle relative al culto: la posizione liberale sosteneva i diritti della comunità religiosa contro l’eccessiva ingerenza dello stato; non liberale colui che difendeva l’autorità dello stato contro i diritti della comunità religiosa. In questi scritti giovanili Locke sostiene la posizione non-liberale, sostiene questa tesi affermando che una volta costituito il potere civile, solo a quest’ultimo appartiene il diritto di regolare la sfera delle cose indifferenti; egli accetta l’elemento fondamentale della teoria hobbesiana sullo stato civile, che consiste nella rinuncia completa della libertà naturale a seguito della costituzione dello stato civile (la natura assoluta e totale del potere civile non cambia in dipendenza del regime), si schiera dalla parte opposta rispetto a quella che difenderà nelle sue opere della maturità. Lo spunto da cui Locke trae questa diatriba è la stessa di Hobbes: la guerra civile. La conclusione a cui giunge Locke è la seguente: il potere sulle cose indifferenti, e quindi sulle cose riguardanti il culto, appartiene solo allo stato.

  1. Il secondo trattato sul magistrato civile Scritto subito dopo il primo, tra il 1661 e il 1662, tratta lo stesso argomento e giunge alle stesse conclusioni, ma al contrario del primo (confutazione) è uno scritto dottrinale e reca il titolo “An magistratus civilis possit res adiaphoras in divini cultus ritus asciscere easque populo imponere? Affirmatur”. Locke si ispira a Robert Sanderson, professore di teologia ad Oxford, ma non viene meno la lezione hobbesiana per quanto riguarda il punto principale (“il magistrato, infatti, in base al patto comune trattiene in sé l’autorità e il diritto naturale dei singoli, di sottomettere al proprio comando e al proprio potere legislativo le cose indifferenti, tanto sacre quanto profane”). In questo trattato Locke distingue in quattro tipi di leggi, poste in ordine gerarchico: a) legge divina (positiva o naturale); b) legge politica; c) legge fraterna o della carità; d) legge monastica (quella che l’uomo impone a sé stesso e può derivare dalla coscienza o da un patto con Dio). La legge inferiore può intervenire solo nella sfera delle azioni che sono indifferenti alla legge superiore; attraverso questa successione la libertà originaria viene gradualmente limitata fino ad esaurirsi nella legge monastica. La legge politica trova il proprio limite solo nella legge divina con la conseguenza che la sfera delle cose indifferenti in cui può intervenire il sovrano è ancora molto ampia e che la legge fraterna e monastica non possono andare contro la disciplina stabilita dalla legge politica. La risposta ultima non è diversa rispetto a quella del primo trattato ma è raggiunta attraverso una distinzione, rispetto al sovrano, tra potere materiale (si ha quando la materia del comando è lecita) e potere precettivo (quando la materia è lecita e il comando stesso è legittimo, quindi compiuto per il pubblico interesse) e rispetto ai sudditi tra obbedienza attiva (è dovuta alla norma che impone una determinata condotta) e passiva (dovuta alla norma che impone una sanzione nel caso in cui la prima norma sia violata). La prima distinzione comporta un ulteriore distinzione rispetto al comportamento del sovrano: a) Un comando legittimo rispetto alla materia e al fine b) Un comando legittimo rispetto alla materia ma non al fine: anche in questo caso Locke mostra di stare dalla parte dell’autorità, sostenendo che anche in questo caso il suddito deve obbedienza attiva. Locke si rende conto che affinché un governo sia legittimo è necessario che anche il fine verso il quale il comando è rivolto sia un fine buono, ma per quanto riguarda la soggezione dei sudditi la distinzione non ha rilevanza. La rilevanza emerge in un terzo caso: se il sovrano emana delle leggi contrarie alla legge naturale, in quel caso ha abusato sia del potere precettivo che di quello materiale, in questo caso il suddito è tenuto solo all’obbedienza passiva (anche in questo caso prevale la concezione autoritaria). A questa soluzione viene obiettato che reprime i diritti della coscienza, Locke risponde introducendo una nuova distinzione tra obbligazione materiale (si ha quando si deve obbedire al comando in ragione della oggettiva bontà della cosa comandata) e obbligazione formale (si deve obbedire in forma dell’autorità che lo ha

riconoscere che esiste una fonte di obblighi (l’obbligatorietà non implica l’efficacia, anche la legge violata è una legge). Per “obbligazione” Locke intende solo l’obbligazione in coscienza, ovvero quella che noi assumiamo con la convinzione che il comando cui ci sottoponiamo è legittimo (adesione del corpo e dell’anima). Egli distingue in debitum officii e debitum supplicii (che deriva dalla violazione del primo dovere e consiste nel dovere di sottomettersi alla pena stabilita. Per quanto riguarda la fonte di un’obbligazione è sempre un potere, inteso come forza esercitata da colui che ha il diritto di esercitarla, dunque una forza legittima. Locke riconosce tre modi di legittimazione del potere: ex iure creationis (il diritto dei genitori sui figli), ex iure donationis, ex iure pacti. La fonte da cui nascono le obbligazioni della legge naturale è la prima: è obbligatoria in quanto deriva dal potere divino. In altro modo si possono distinguere le obbligazioni per se stesse e per forza altrui (per se et vi sua) e per mezzo di altro e forza altrui (per aliud et virtute aliena). L’obbligazione della legge naturale è della prima specie, in quanto derivata direttamente dal potere divino e non da un potere delegato. Il che può essere provato con tre argomenti: 1) La legge naturale contiene tutto ciò che è necessario per rendere una legge vincolante; 2) Se la legge naturale non obbligasse non sarebbe obbligatoria nemmeno la legge positiva divina; 3) Se la legge naturale non obbligasse non esisterebbe la legge positiva umana. Carattere prettamente giusnaturalistico di questa impostazione: la legge positiva ha vigore in quanto è fondata sulla legge naturale. Problema relativo all’estensione dell’obbligatorietà della legge naturale: l’obbligatorietà della legge naturale è perpetua e universale. A proposito della perpetuità bisogna tenere presente la differenza tra precetti negativi e precetti positivi, rispetto ai primi l’obbligazione è perpetua, rispetto invece a quelli positivi siamo tenuti solum tempore et modo, cioè solo nelle circostanze in cui può essere eseguita. Altra differenza è quella tra leggi che prescrivono la substantia di un’azione e leggi che prescrivono dolo le circumstantiae, in questo secondo caso l’obbligazione rimane perpetua, ma l’attuazione del dovere è occasionale. Per quel che riguarda l’universalità, cioè l’avere per destinatari tutti gli uomini indistintamente, è necessario introdurre un’altra distinzione: oltre alle leggi veramente universali ci sono leggi naturali che obbligano soltanto coloro che si trovano in determinate situazioni (campo vastissimo di applicazione di questa limitazione soggettiva). L’universalità può essere condizionata dallo status delle persone. Locke tiene conto di alcune tradizionali obiezioni: -sembra che il diritto naturale venga meno là dove Dio comanda altrimenti; la legge naturale che comanda di obbedire ai genitori viene meno quando il comando dei genitori è in contrasto con quello del sovrano. Locke risponde nel primo caso che non viene violata la legge naturale ma viene mutato il padrone; nel secondo caso che non viene meno l’obbligo della legge naturale, ma muta la natura della cosa. Per quanto riguarda la fondazione della legge naturale egli non accoglie da tesi utilitaristica e si allontana ancora una volta da Hobbes.

  1. Idee per un’etica dimostrativa (comune a tutti i giusnaturalisti): Saggio sull’intelligenza umana “Il nostro spirito è come una candela che noi abbiamo davanti agli occhi, e che diffonde luce sufficiente a illuminarci in tutte le nostre faccende”, “bastano a distinguere ciò che è per loro di assoluta importanza sapere” Il bisogno che ha l’uomo di vederci chiaro riguarda soprattutto il modo di comportarsi. L’etica razionale sarebbe stata scritta dopo il Saggio, cioè dopo che fosse stato chiarito il problema se mai un’etica razionale fosse possibile, la risposta di Locke è affermativa. Ciò che mostra uno stretto nesso tra gli scritti giovanili e il saggio è la critica delle idee innate. L’argomento principale contro l’ammissione di principi pratici innati è quello della mancanza di consenso universale (esempio giustizia); il consenso da solo non basta a fornire una prova dell’innatismo. Non vi è dunque alcun consenso su ciò che è bene e ciò che è male, ma se anche vi fosse non proverebbe nulla, dal momento che può essere derivato dall’educazione o dalla convenienza (l’uomo è portato dall’interesse a far considerare come sacre leggi della morale). Combattendo l’innatismo Locke combatteva ogni forma di dogmatismo che pretendeva di sottrarre alcune verità indiscutibili allo sforzo di ricerca dell’uomo. Locke sostiene che l’uomo sia più adatto alla conoscenza morale che non a quella dei corpi fisici, in cui può giungere solo a conoscenze probabili. Locke distingue in due ordini le difficoltà che si incontrano nel porre su solide basi la scienza morale: -le idee morali non si possono esprimere che con le parole le quali sono meno stabili e devo essere interpretate; -incertezza dei nomi che le designano.

  2. La morale nel Saggio sull’intelligenza umana Un’etica si costruisce sulla base di giudizi di valore, presuppone un determinato concetto di bene e di male. Locke, seguendo la logica dell’empirismo, riscoperse la teoria edonistica, cioè quella teoria per la quale l’idea di bene e di male sono connesse ai sentimenti di piacere e di dolore. Questa teoria della morale porta Locke ad esprimere una nuova concezione della legge. Che cos’è che ci da piacere e cosa dolore? Locke risponde rispettivamente il compenso nel primo caso e la pena nel secondo: in questo modo l’idea di legge è sempre accompagnata all’idea di sanzione. Espone una classificazione di tre specie di leggi, distinte in base alle diverse sanzioni che derivano dalla loro violazione: 1)legge divina: la cui sanzione è il premio o il castigo eterno; 2)legge civile: ricompense o pene stabilite dallo stato;

  1. legge dell’opinione e del costume: approvazione o disapprovazione dei nostri simili, sono quelle che gli uomini tendono ad osservare con maggiore scrupolo. Non si può dunque parlare di un bene o un male assoluto, bene e male sono idee di relazione.

L’azione viene qualificata in base alle leggi: in base alla legge divina distinguiamo tra peccati o doveri, legge civile in delitti o azioni innocenti, legge della reputazione in vizi o virtù. Questo concetto di legge e la dottrina morale lockiana sono estranee alla tradizione giusnaturalistica; prosegue però l’ideale di un’etica dimostrativa, che si inserisce nella corrente del giusnaturalismo moderno. 8. Il giusnaturalismo dei Due trattati Opera più rappresentativa della filosofia politica giusnaturalistica, cioè di una concezione della società e dello stato che pretende di essere elaborata sulla base di una scrupolosa osservazione della natura; i due trattati sul governo sono ispirati all’idea che esiste una legge naturale, conoscibile ed obbligatoria, e che nel governo civile è bene tutto ciò che è conforme a questa legge. I rapporti naturali permettono di ricostituire uno stato il più possibile rispettoso della natura e quindi più libero e giusto. La natura è la guida della condotta, il fondamento di ogni ricerca su ciò che è bene e ciò che è male. Per “natura” intende il fascio di istinti e inclinationes, di cui nominerà l’istinto di conservazione e procreazione, quando invece parla di legge naturale, intende l’insieme di regole di condotta che la ragione ricava e propone per la miglior costituzione di società umana. La legge naturale esiste ed è presentata come scritta o non scritta, ma reperibile nelle menti di tutti gli uomini, è conoscibile e obbligatoria. Quest’obbligatorietà riguarda tutti gli uomini, il che significa che è universale (“comune a tutti”). Locke, sotto l’influsso del teologo razionalista Richard Hooker, identifica la legge naturale con la ragione, che è scopritrice e dettatrice della legge naturale (la vera legislatrice dell’umanità). Quest’opera costituisce, sotto molti aspetti, la fine della concezione paternalistica del governo e l’inizio di quella liberale e democratica. Il problema del rapporto tra la concezione filosofica del Saggio sull’intelligenza umana e quella politica dei Due trattati è stato a lungo trattato: l’opinione prevalente è quella che non vi sia alcun rapporto di derivazione (Pareyson, Laslett). La teoria politica di Locke, essendo espressione rappresentativa della dottrina giusnaturalistica, è una teoria oggettivistica dell’etica, in quanto prende le mosse dall’osservazione delle inclinazioni e dei bisogni naturali dell’uomo. In linea con la funzione storica del giusnaturalismo (affermato i limiti del potere statale) la costruzione politica di Locke ubbidisce all’idea secondo la quale il buon governo è quello che nasce con dei limiti invalicabili, dati dal fatto che le leggi politiche vengono dopo quelle naturali (“le leggi positive della società, stabilite in conformità delle leggi di natura”).

Il diritto naturale e il governo civile (esporre il pensiero politico lockiano, prendendo principalmente in esame il Secondo

trattato)

1. Natura dei Due trattati:

il Secondo trattato sul governo è la delineazione di un modello da contrapporre al modello del governo paternalistico e del governo dispotico; ha un intento e un valore essenzialmente normativo. Il trattato si rivolve nell’enunciazione di un fine e nella ricerca dei mezzi più adeguati a raggiungerlo. Una politica di stampo giusnaturalistico è una politica che ricorre: - alla natura dell’uomo per scoprire il fine da raggiungere e -alle condizioni e qualità naturali dell’uomo per stabilire in quale modo gli esseri umani possano raggiungere il fine. La società civile è una condizione necessaria per la conservazione dell’uomo; si si pone quest’ultima come fine e la società civile come mezzo si ricava la regola suprema: “Se vuoi raggiungere la conservazione della specie umana, devi volere la società civile”. Locke parte dalla constatazione dei malanni che turbano la convivenza (ricerca delle cause). Il principale bersaglio polemico è il dispotismo, cioè il governo fondato sulla forza. Occorre quindi dimostrare:

a) Perché un tal governo è male: si tratta di dimostrare che va contro il fine per cui l’uomo si congiunge in

società;

b) Come lo si possa evitare: trovare le tecniche di convivenza adatte al raggiungimento dello scopo

ultimo. L’opera è dunque la descrizione e spiegazione di nessi causali o di condizionamento tra eventi, da cui si possono desumere regole di condotta, che hanno come destinatario il cittadino. Il suo intento non è di osservare ciò che avviene nelle società umane, ma di stabilire come devono essere governate, ovvero stabilire quale sia il fondamento di legittimità del potere. Locke prende una posizione contro il potere fondato sulla forza, che è il potere dispotico, cioè il potere che ha il padrone sugli schiavi, che deve essere necessariamente distinto sia dal potere paterno che dal potere civile. Tre sono le forme di potere che un uomo può avere sugli altri uomini: il potere paterno, dispotico e civile; il proposito principale di Locke è quello di mostrare che il potere civile deve essere distinto sia dall’uno che dall’altro, perché ha un diverso fondamento di legittimità.

L’oggetto principale di una teoria politica è il problema del potere, delle sue varie forme, della sua origine; in base a quest’oggetto si possono distinguere sei temi fondamentali.

  1. Quando furono composti i due trattati:

Un’altra questione è quella relativa alla storicità dello stato di natura (realmente esistito oppure soltanto ipotetico?): la questione era stata risolta dal Pufendorf con la distinzione tra stato di natura limitato e puro. Locke se ne occupa nel paragrafo 14 del Secondo trattato: egli risponde riferendosi ai sovrani dei governi indipendenti che vivono tra loro allo stato di natura, aggiunge inoltre che occorre quel particolare potere per formare un unico corpo politico. Non qualunque forma di soggezione tra governanti e governati costituisce un governo civile, ma solo quella fondata sul consenso. Nell’antitesi stato di natura-stato civile vi è l’anticipazione di una concezione dialettica della storia, cioè di una concezione della storia come movimento diadico (Hobbes) o triadico (Locke), articolato in tre fasi di sviluppo (lo stato secondo natura, lo stato di natura com’è di fatto e lo stato civile: tesi, antitesi, sintesi). Lo stato di natura lockiano è dunque la negazione dello stato di natura, in vista di una riaffermazione dello stato di natura ideale; in quanto sintesi giustifica il continuo progresso verso il meglio.

  1. Il fondamento della proprietà Lo stato di natura è un miscuglio di bene e male, il compito dello stato civile è quello di conservare il bene ed eliminare il male. Il bene erano i diritti naturali: libertà, eguaglianza e diritto di proprietà (nasce e si perfeziona nello stato di natura). Uno dei fini per cui gli uomini si riuniscono in un corpo civile è la conservazione della proprietà, nei Due trattati è diventata addirittura l’unico fine del governo civile. Nel suo discorso il termine “proprietà” ha un significato ristretto (diritto che consiste nel potere sulle cose) e un significato più largo (indica il diritto naturale per eccellenza). La teoria lockiana della proprietà è una confutazione indiretta delle dottrine di Hobbes e Pufendorf: Hobbes aveva negato che il diritto di proprietà fosse un diritto naturale, cioè che fosse nato nello stato di natura, la proprietà intesa come diritto contra omnes, nasceva in seguito all’istituzione dello stato e mediante la protezione dello stato (dunque istituto di diritto positivo). Lo stato hobbesiano è istituito unicamente per la conservazione della vita, unico diritto naturale. Pufendorf aveva accolto la tesi del fondamento contrattualistico della proprietà (Grozio), la proprietà presuppone una convenzione, sia tacita che espressa. Egli aveva creato la categoria del diritto naturale convenzionale, l’istituto tipico di questo diritto era la proprietà; il momento di nascita della proprietà andava collocato tra lo stato di natura e lo stato civile ed era appunto il momento del diritto naturale convenzionale, cioè nato da accordi reciproci (un accordo universale è però impossibile nello stato di natura). Locke non accoglie la teoria dell’occupazione e le teorie di Hobbes e Pufendorf. Sostiene che le cose del mondo esterno erano nello stato di natura res communes, cioè appartenevano a tutti, dunque la situazione originaria era caratterizzata dall’universale estensione della proprietà. Il passaggio a un regime di proprietà individuale avveniva attraverso un processo di individuazione, sostenne inoltre che il fondamento della proprietà individuale doveva essere cercato nel lavoro (energia spesa su una determinata cosa per impadronirsene o per valorizzarla economicamente). Partendo dalla teoria del lavoro tutte queste cose diventano mie per la fatica che mi è costata. Molto vago è invece rispetto alla determinazione della misura dell’incremento di valore prodotto dal lavoro, ma quel che conta è l’uso che fa della teoria economica per porre su nuove fondamenta la giustificazione della proprietà individuale, per dimostrare l’assunto che l’uomo “sebbene le cose di natura siano date in comune, ha sempre avuto in sé il primo fondamento della proprietà” (in sé, cioè nella costituzione stessa della propria natura).

  2. I limiti della proprietà Spesso la teoria lockiana fu interpretata abusivamente come precorritrice di correnti socialiste. Viano propone un’analisi accurata sul significato storico della teoria della proprietà, Polin sui precedenti e Macpherson sull’interpretazione. Quest’ultimo mette in evidenza l’estremo individualismo di questa teoria economica, dove inoltre appare la teoria dell’illimitata accumulazione capitalistica. -Il primo limite, riconosciuto dallo stesso Locke, consiste nel fatto che colui che acquista mediante la propria capacità di lavoro la proprietà sulla terra ne deve lasciare agli altri quanto basta affinché possano conservarsi e sopravvivere. Questo limite non ha grande importanza dal momento che Locke constata che di terra ce n’è in abbondanza per tutti. -Il secondo limite dipende dal fine stesso dell’istituto: la proprietà serve per il sostentamento proprio e della propria famiglia, dunque io ho un diritto di proprietà solo sulle cose di cui posso effettivamente godere (“tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri”). Ma anche questo limite non ha valore assoluto in quanto vale soltanto in una società primitiva in cui non sia ancora apparsa la moneta (bene indeperibile; accumulando monete non porto via nulla a nessuno). Dunque, l’eccedere i limiti della giusta proprietà non sta nell’estensione del possesso ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzato nel possesso di qualcuno; Locke riconosce inoltre che con l’introduzione della moneta gli uomini hanno consentito ad un possesso sproporzionato e ineguale della terra. -Il terzo limite è inerente alla natura della proprietà come frutto del lavoro: il mio lavoro è naturalmente limitato, se la proprietà è frutto del lavoro non dovrei possedere più terra di quella che posso lavorare. Se è solo il lavoro mio il limite resta, ma se è anche lavoro degli altri (che lavorano per me) il limite non esiste più.

-Quarto limite: il lavoro è un prodotto strettamente personale, cioè connesso alla persona che lo esercita. Come la proprietà nasce con lo sforzo del lavoro, così è destinata a finire quando lo sforzo viene meno. Alla morte del proprietario-lavoratore i beni acquistati con il lavoro personale dovrebbero tornare res communes. Problema della successione ereditaria: tre possibili soluzioni: 1) o ritorna alla comunità o allo stato, 2) resta nella società familiare di cui fa parte il defunto, 3) viene attribuito a colui che è designato erede. Locke scarta la prima ipotesi sostenendo che accanto all’istinto di autoconservazione, esiste negli uomini anche l’istinto di propagare il loro genere. Così anche il limite personale del titolo d’acquisto originario è superato. Rifiuta l’istituto del maggiorascato: la proprietà ha una funzione di provvedere al sostentamento della famiglia, dunque non c’è ragione che vada a vantaggio di uno solo. Non scarta invece la terza soluzione e la coordina con la seconda, ma sostiene che i figli hanno non un diritto esclusivo sui beni paterni, ma un diritto di precedenza sui beni che non sono stati oggetto di disposizione testamentaria. Tutto questo avviene nello stato di natura, quindi indipendentemente dall’intervento dello stato; in questa risoluzione della società di natura l’economia funge da struttura e la politica da sovrastruttura (primato dell’economia).

  1. Il potere paterno (capitolo VI del Secondo trattato sul governo) La tradizione distingue tre forme di potere sulle persone: potere del padre sui figli, potere del sovrano sui sudditi e potere del padrone sugli schiavi. A queste tre forme corrispondo tre titoli diversi d’acquisto del potere sulle persone (Grozio: generazione, consenso, delitto). Tutta la teoria politica di Locke è un tentativo di distinguere nettamente il potere civile dal potere paterno e dispotico, mostrando che al potere civile compete un fondamento proprio, cioè il consenso. Rispetto al potere paterno, la critica lockiana consiste nel mostrare la falsità della dottrina che identifica il potere del sovrano con il potere del padre (critica Filmer). L’avversario di Locke è la concezione familiare dello stato: per abbatterla deve mostrare che esse si rifanno a due forme diverse di potere:

    1. Mentre il potere sui sudditi del monarca è di uno solo, il potere sui figli p di due persone (potere genitoriale);
    2. Il fine del potere dei genitori è quello di allevare ed educare la prole fino alla maggiore età, momento in cui la prole è capace di governarsi da sé: è quindi un potere temporale. Locke affronta il problema del fondamento del potere dei genitori: Grozio aveva accolto la teoria della generazione, Hobbes aveva sostenuto una tesi che poteva apparire come un’estensione analogica della teoria dell’occupazione dalle cose alle persone (“il dominio sul bambino appartiene al primo che lo ha in suo potere”), Pufendorf pose alla base di questo potere una convenzione, sostenendo che deriva da un consenso tacito dei figli. Locke capovolge i punti di vista, confermando il passaggio che andava compiendo da una concezione autoritaria ad una liberale dei rapporti umani. Egli parte dal diritto dei figli: chi nasce, per il solo fatto di nascere, ha il diritto di vivere; siccome non ci può essere diritto senza dovere, al diritto alla vita dei nati corrisponde il dovere di chi li ha generati o accolti di nutrirli ed allevarli. il potere genitoriale è la necessaria conseguenza dell’adempimento di quel dovere: il potere dei genitori diventa dunque un posterius. Nel capito VII si occupa della società coniugale e sostiene che: 1) ha un fondamento contrattuale, che ha lo scopo di procreare e allevare la prole, 2) essendo destinata ad un fine, raggiunto il fine può essere sciolta,
    3. il potere del marito sulla moglie non è un potere dispotico, cioè non spetta al marito il potere assoluto di vita e di morte.
  2. Il potere dispotico

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Locke e il diritto naturale Bobbio

Corso: Storia della filosofia (99710)

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Locke e il diritto naturale, Bobbio
Premessa: “Parole”, Ernest Gellner: giusnaturalismo e positivismo giuridico sono due modi diversi di considerare il fenomeno
giuridico, che non si escludono necessariamente a vicenda, rappresentano due prospettive possibili. Il giusnaturalismo rappresenta
il momento della presa di posizione di fronte al diritto esistente, ci viene incontro nell’esigenza di mutare o giustificare il diritto
vigente; il positivismo giuridico, invece, il momento della constatazione storica che un certo diritto esiste e ha determinate
caratteristiche.
Il saggio è diviso in tre parti:
I: il diritto naturale e il suo significato storico (trattazione generale sul giusnaturalismo);
II: Locke e il diritto naturale (studio del pensiero giusnaturalistico di Locke);
III: il diritto naturale e il governo civile (aspetti del sistema politico e giuridico di Locke).
Il diritto naturale e il suo significato storico:
1) Tre libri da leggere: (filosofia del diritto o ius naturae/ius naturale)
Leo Strauss, Diritto naturale e storia: difesa ad oltranza del diritto naturale, del suo valore storico e del suo significato
presente. Rappresenta la “reductio ad Hitlerum” della polemica giusnaturalistica, secondo la quale l’abbandono della
credenza nel diritto naturale di un diritto superiore rispetto a quello positivo e avente valore oggettivo sarebbe stata la
causa dell’avvento dei regimi totalitari (“Gesetz ist Gesetz”). Il libro comincia con un attacco allo storicismo (Weber), risale
alle fonti del pensiero greco, espone la storia del giusnaturalismo classico e illustra la svolta avvenuta con quello moderno,
richiamandosi a Hobbes e Locke.
Pietro Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna: tentativo di mostrare che il giusnaturalismo è morto e non può
resuscitare in quanto è in contrasto con l’etica moderna. Il giusnaturalismo ha sempre rappresentato unetica della legge,
ovvero un’etica che subordina la libertà della coscienza ai dettami di una legge oggettiva; letica moderna è invece una
etica della coscienza individuale (“etica antagonistica”), il giusnaturalismo è legalismo.
Alessandro Passerin D’Entrevrèves, La dottrina del diritto naturale: esaminare ciò che è vivo e ciò che è morto della
dottrina giusnaturalistica, di mettere in rilievo la funzione storica e le tracce lasciare nella teoria giuridica moderna.
Lopera è divisa in due parti: una storia e una teorica, in cui vengono esaminati i tre principali contributi lasciati al pensiero
giuridico: a) definizione del diritto come norma qualificativa di comportamento;
b) distinzione tra diritto e morale;
c) aver mantenuto fede all’idea della giustizia superiore alle leggi positive.
“La mia posizione è più vicina a quella del d’Entrèves”.
2) La rinascita del diritto naturale: movimento odierno del pensiero giuridico:
celebri “conversioni” da parte di autori che erano avversi al giusnaturalismo prima della guerra e sono diventati
giusnaturalisti dopo, di fronte al crollo di valori provocato dai regimi totalitari (Gustav Radbruch, Carlo Antoni discepolo di
Croce). Il diritto naturale continua, dalla Grande Guerra, a rinascere (p.13); ma già alcuni anni prima della guerra, in
circostanze completamente diverse, era apparto il saggio di Charmont “La rinascita del diritto naturale”, dunque ci
sarebbero buone ragioni per sostenere che si fosse parlato di questa rinascita già all’inizio del XX secolo. Di fronte alla
continua rinascita si è sostenuto che questa dottrina non fosse mai morta. Arnold Brecht, invece, ha distinto dai greci ai
giorni nostri 8 periodi in cui si susseguono età giusnaturalistiche e non.
Bobbio ritiene necessaria una distinzione tra esigenza e teoria giusnaturalistica: se si guarda all’esigenza il giusnaturalismo
non può rinascere perché non muore mai. La rinascita odierna del giusnaturalismo coincide con il riemergere dell’eterna
esigenza dell’idea di giustizia; mentre la teoria del diritto naturale è tanto trasformata che si stenta a riconoscerla
(Lombardi, Etica della persona).
3) Qualche osservazione sul concetto di natura:
per capire che cosa si intende per “diritto naturale” bisogna rifarsi al concetto di natura, dal momento che questo diritto si
fonda sulla natura. Natura è un concetto generalissimo tramandato dai greci:
Aristotele, Metafisicanella classificazione delle scienze distingue quelle che hanno per oggetto le cose naturali (scienze fisiche) e
quelle che hanno per oggetto il fare umano (distinto a sua volta in ποιέω e πράσσω).
Il termine natura abbraccia in una sola categoria tutte le cose che non sono prodotte dall’uomo, che esistevano prima dell’uomo e
continueranno ad esistere dopo. Tutti i termini antitetici che sono stati contrapposti al concetto di natura fanno sempre riferimento
alla contrapposizione tra ciò che l’essere umano può dominare e ciò che sfugge al suo controllo:
natura-arte, natura-convenzione, natura-società, natura-cultura… Di fronte all’antitesi natura-non natura i greci si sono domandati a
che ambito appartenesse il diritto: la risposta fu ambivalente, il diritto è e natura e arte (da questa risposta è nata la dicotomia
diritto naturale - diritto positivo). Oggi appare strano considerare una parte del diritto come naturale, poiché è prodotto dalla
società, o dalla civiltà, dalla storia o dallo spirito.
Ma bisogna tener conto del fatto che nelle società antiche il diritto era consuetudinario, cioè un insieme di regole che si tramandano
di generazione in generazione e accolto come sempre esistente; il diritto legislativo era un fenomeno eccezionale (Pascal, la natura è
una specie di primo costume).
Nel medioevo la natura è il prodotto dell’intelligenza della potenza creatrice di Dio; all’inizio dell’età moderna viene intesa come
ordine razionale dell’universo, per diritto naturale l’insieme di leggi della condotta umana (diritto trovato, non posto dall’uomo).
Tre diverse definizioni di diritto naturale:

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