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94258-Brevini, Tessa - L’è el dì di Mort, alegher!

L’è el dì di Mort, alegher!
Corso

Letteratura italiana (67170)

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Anno accademico: 2019/2020
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L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur di Delio Tessa

franco brevini

1. Genesi e storia.

  1. «Una vergogna della critica italiana».

Un lettore raffinato come Pietro Paolo Trompeo, non certo sospet- tabile di tendenziosità meneghina, scriveva nel 1950 che se è necessario studiare il greco per leggere Saffo, bisogna imparare il milanese per ca- pire Tessa 1. Il lusinghiero apprezzamento dell’illustre francesista roma- no riesce quanto mai caratteristico della critica tessiana: isolati, autore- voli giudizi, provengano essi da Croce o da Pasolini, da Linati o da Men- galdo, da Fortini o da Isella, campeggianti in un panorama di generale indifferenza. Tanto che ancora nel 1978, presentando Tessa nella bene- merita antologia Poeti italiani del Novecento, Mengaldo poteva denun- ciare nel «disinteresse per questo poeta, uno dei più grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio, una vergogna della critica ita- liana» 2. È noto come nel corso degli anni Sessanta-Settanta si sia consumata la crisi della vecchia storiografia letteraria fondata sulle riviste e sui grup- pi, all’origine del primato accordato alla linea novecentesco-ermetica, dalla «Voce» a Ungaretti. La ripresa di interesse verso Tessa, culminata nella fondamentale edizione critica delle poesie allestita da Dante Isella nell’85, si colloca in quel clima di rinnovamento degli studi. Si rendeva finalmente possibile, come annotava Fortini nel 1977, il recupero di quan- to di espressionistico, plurilinguistico e dialettale si è manifestato negli scorsi sessant’anni 3. Eppure, se oggi le poesie di Tessa tornano a essere accessibili, dopo una lunga assenza dalla scena editoriale, se nessuno dubita più del valo- re del poeta milanese, la sua opera stenta ancora a trovare un’adeguata considerazione critica. Continuano infatti a mancare, non si dice una buona monografia, ma indagini più ravvicinate dei suoi testi. Per non di-

re di vistose discriminazioni tuttora vigenti nel dosaggio degli spazi an- che all’interno di pregevoli opere manualistiche: a fronte delle molte pa- gine riservate a figure pur rilevanti come Saba, Ungaretti e Montale, li- quidare Tessa in una paginetta, come accade in una certa storia lettera- ria, pare francamente un po’ riduttivo. Una responsabilità nella scarsa sollecitudine della critica verso l’o- pera di Tessa, almeno fino all’edizione Isella 4 , è spettata tuttavia al cat- tivo stato delle stampe. Per decenni i suoi libri sono risultati introvabi- li. Tessa è autore dalla vena non copiosa: il corpusdella sua produzione in versi, quale è consegnata al volume einaudiano dell’85, L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur e altre liriche, comprende solo trentanove te- sti distribuiti in un arco di tempo di circa un trentennio. Ma soprattut- to Tessa mostrò, almeno inizialmente, una singolare reticenza alla pub- blicazione dei suoi versi 5. Sappiamo che il primo e unico volume che vi- de la luce vivente l’autore, L’è el dì di Mort, alegher! («È il giorno dei Morti, allegri!»), apparve da Mondadori nel 1932 6 solo dietro le insi- stenze dell’amico Luigi Rusca, ai tempi direttore generale della casa mi- lanese («el Rusca col me liber», come ha ricordato Isella, è uno degli

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Delio Tessa

Nato il 18 novembre 1886 a Milano, compie gli studi presso il liceo Beccaria; nel 1911 si lau- rea in giurisprudenza presso l’Università di Pavia. Aveva cominciato, nel frattempo, a dedi- carsi alla poesia, mostrando anche vivo interesse per il cinema e la musica; negli stessi an- ni (1909-12) si innamora di una giovane pianista, una passione avversata dalla famiglia di lei e di cui porterà memoria lungo il corso della sua vita. Mentre frequenta l’Accademia scientifico-letteraria, di cui segue le lezioni di filosofia, intraprende la carriera legale, eser- citando la professione di avvocato e di giudice conciliatore. Non riuscendo a ricavarne gua- dagni sufficienti, decide di affiancarvi, dagli anni Trenta in poi, l’attività giornalistica, dap- prima svolta in collaborazione con la stampa locale, poi, dal 1935, con alcuni giornali tici- nesi – per i quali scrisse anche di critica cinematografica – e con la Radio della Svizzera ita- liana. L’anno successivo, inoltre, iniziò a collaborare all’«Ambrosiano», dove comparvero in quel periodo gli articoli di importanti letterati del tempo: Tessa volle intitolare le sue cro- nache, che descrivevano la vita cittadina,Ore di città(pubblicate postume nel 1984 a cura di Dante Isella). La sua cultura letteraria risentí fortemente dell’influenza della lezione dei grandi poeti mi- lanesi, anzitutto di Porta, dei cui versi fu pubblico declamatore; altri debiti espressivi con- trasse con le tendenze decadentiste degli ambienti letterari della città e con la scapiglia- tura. Improntò la sua poesia all’osservazione e alla rappresentazione della vita popolare, da cui ricavò materia linguistica e ispirazione tematica: il frutto di questo lavoro è visibile an- che nell’opera, inedita,Frasi e modi di dire del Dialetto milanese. Nel 1932 l’editore Mondadori stampa L’è el dí di Mort, alegher!,l’unico testo pubblicato in vita, dove alla raffigurazione dell’ambiente quotidiano milanese si sovrappongono gli even- ti tragici della Prima guerra mondiale là del mur, suo ultimo libro di poesie, apparve do- po la sua morte, avvenuta il 21 settembre 1939 a Milano.

sa sarebbe un po’ di tutto e cioè: traccia per il dicitore, traduzione e il- lustrazione della lirica». Inoltre perché il poeta menziona la Poesia della Olga, che avrebbe do- vuto già figurare nella prima raccolta, sottolineando il parallelismo con il capolavoro portiano: «Nel volume verrebbe inclusa la “Poesia della Ol- ga” che ritengo sia quanto di meglio io ò saputo immaginare e fare. Car- lo Porta nella sua “Ninetta” à cantato la “tosa de Casin” e io la “Ruf- fiana”». Tuttavia la raccolta, che ad un tratto sembrò persino dovesse appari- re presso un editore di Lugano, evidentemente per la polemica verso il regime, non vide mai la luce durante la vita del poeta. Le due sole poe- sie a essere stampate dopo L’è el dì di Mort, alegher! furono La giornata de me zio pescaú de Lacciarella 15 e Finester 16. Tessa morí nel’39 e le sue carte passarono all’amico Fortunato Rosti, il quale già nel ’41 informa il ticinese Piero Bianconi che Einaudi si sa- rebbe assunto l’iniziativa di ripubblicare il corpus poetico tessiano. In realtà il libro, con il titoloPoesie nuove ed ultime, apparirà solo nel ’

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da un altro editore torinese, De Silva (presso cui l’anno seguente apparirà la seconda edizio- ne di Seradi Virgilio Giotti), per le cure del Ro- sti e di Franco Antonicelli. Veniva annunciato come primo volume di un’edizione integrale, purtroppo mai realizzata, degli Scritti di Delio Tessa. L’opera era suddivisa in due sezioni: la pri- ma comprendeva De là del mur («Al di là del muro»), il libro che al Tessa non era riuscito di stampare, per il quale i curatori avevano potu- to servirsi del testo dattiloscritto approntato dal poeta stesso. Una nota d’autore riferisce che la raccolta avrebbe dovuto inizialmente intitolar- si I cinqu settacuu, «quel piombar giù che si fa d’improvviso sull’osso sacro e per di più con gran difficoltà a rialzarsi». Fu poi optato per un titolo più neutro «per non urtar subito e tutti». La seconda sezione sotto il titolo Poesie fatte comprendeva una scelta di sedici liriche sparse, di solito degli ultimi an- ni, fra cui la celebre A Carlo Porta. Accanto a esse compariva qualche te- stimonianza delle prime prove tessiane «trascritte da un quadernone di tela nera “aperto nel novembre 1906, chiuso nel luglio 1912”, ma an- ch’esse rivedute dal poeta più tardi e destinate a una futura pubblica- zione». In nota a Poesie nuove e ultime si legge pure un terzo dialogo, che avrebbe seguito i due Del poeta e del Consigliere Delegato del 1936-37, con cui si apriva De là del mur. Protagonisti del colloquio, che anche Tes- sa aveva tralasciato nel dattiloscritto predisposto in servizio dell’edizio- ne, e che è ambientato «molti anni dopo», sono due anonimi personag- gi, A e B, che si aggirano nella Milano del 2000, rievocando la dramma- tica età fra le due guerre in cui era occorso di vivere al poeta: «Nessun poeta è venuto a noi da quella disgraziata metà del novecento. Questo è un sintomo. Un popolo senza poesia è un corpo senz’anima: un cadave- re vivente».

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Eugenio Spreafico, Dolori (La sagra dei morti), 1886. Mon- za, Musei Civici.

dimesso e quasi segreto da confidenza, da pettegolezzo. Dizione ondosa, incerta, tan- to che nessun tema prevale. (p. 154).

Mentre la nota a L’è el dì di Mort, alegher!, si apriva con questa ine- quivocabile dichiarazione: «Come un fascio di musiche si affida all’ese- cuzione canora, cosí i miei saggi lirici attendono la voce del dicitore» (p. 143). Ora, corredare il testo di minute istruzioni per la sua esecuzione ora- le vuol dire ancora una volta privilegiare un tipo di circolazione, che a partire dall’ermetismo avrebbe sofferto un crescente discredito, pur co- noscendo ancora una certa diffusione negli anni Trenta. Anche Marinetti aveva insistito sull’aspetto vocale della poesia, benché poi il testo futu- rista divenga puro pretesto per la performanceavanguardistica. Ma si trat- ta comunque di un’eccezione in un panorama che inclina ormai verso la sillabazione interiore e la «degustazione» solipsistica dei lirici nuovi. Anche nella scelta di questa anacronistica comunicazione Tessa riba- diva dunque la propria fedeltà alla tradizione dialettale. Senza risalire al- le vere e proprie tournées, che Testoni, Pascarella e Trilussa compirono nei primi anni del secolo, tenendo pubbliche letture nei principali teatri della penisola, basta citare il caso di un dialettale di prim’ordine come Noventa e la sua orgogliosa difesa de «i versi, | che mi digo e me basta de dir» 20 , riservati a uno scelto cenacolo di amici e «toseti». Si può dire che almeno fino alla metà del Novecento il dialetto con- tribuisca, nei modi più diversi, a mantenere ancorato il poeta alla di- mensione dell’oralità. Il salto dal parlato allo scritto comporta per il dia- lettale, che spesso fa precedere la pubblicazione del testo da una lunga consuetudine di recitazione (a proposito di Tessa Pancrazi ricorda come le sue poesie fossero cose molto elaborate e rifinite, dette e ridette, col- laudate dalla viva voce e dall’aria prima che stampate sulla carta) 21 , un inconveniente assai grave: autore ed esecutore cessano di coincidere, il rischio che l’appiattimento sulla pagina impoverisca il testo è per il poe- ta in dialetto tutt’altro che teorico. Se Leopardi è nato per lo scritto, già il Giusti di «Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco» pone il problema della realizzazione orale, proprio perché la sua operazione si compie a ri- dosso del parlato. E su cosa gioca la letteratura dialettale se non sugli ef- fetti derivanti dall’importazione nella pagina scritta della lingua dell’o- ralità quotidiana? Del resto un’analoga riluttanza a pubblicare non si ri- trova forse in Paganini o, spostandoci altrove, in Petrolini, in personag- gi cioè che ugualmente hanno puntato tutto sulla coincidenza delle due

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figure dell’autore e dell’esecutore? Tessa stesso nel già ricordato Perché scrivo in dialetto? confessa la sua scarsa simpatia per la pagina scritta: «Una poesia scritta, e fin che è lí adagiata sulla pagina di un libro, mi di- ce ben poco: bisogna portarla fuori, bisogna impararsela a memoria, fa- re come faceva Bellini coi versi del Romani: se li diceva ad alta voce e dalla dizione gli nasceva la musica» 22. A questo disagio verso lo scritto, che gli impedisce di controllare l’ut- terance, la pronuncia, il poeta dialettale reagisce di solito intensificando le ricerche sulla rappresentazione grafica della sua lingua. È questo il ca- so più diffuso: basti pensare a Di Giacomo, che si inventa un nuovo na- poletano letterario, fino a giungere a talune curiose soluzioni dei neo- dialettali, che, alle prese con parlate inedite, gremiscono la pagina di se- gni grafici, fino a trasformare la lettura in un percorso di guerra. Ogni volta che questo rapporto con l’oralità si attenua nella coscien- za dell’autore, ci troviamo di fronte a un segnale inconfondibile di poe- sia, malgrado il mezzo, «antidialettale», che versa cioè le lingue orali in stampi culturali allotri: è il caso di taluni esiti di Giotti, di Marin o di Firpo e in generale dei dialettali più vicini alla convenzione ermetica. Tessa aveva alle spalle un’illustre tradizione letteraria, che almeno dal Balestrieri vantava ormai un secolo e mezzo di codificazione grafica. Que- sto spiega perché egli si sia attenuto alla norma del milanese. Ma, al di là delle licenze che si prende, non rinuncia a stipare la pagina di istru- zioni e didascalie, che gli consentano di pilotare a distanza la restituzio- ne orale dei suoi testi, nel tentativo di reintegrare sulla pagina scritta i diritti della voce.

  1. L’anacronismo di Tessa.

Tessa e Noventa, nonostante la loro diversità, restano in pieno No- vecento i più tenaci e autorevoli assertori di una poesia dialettale che punta sugli elementi di continuità con la tradizione, con il “genere”, piut- tosto che sulla rottura impartita dalla svolta novecentesca, avviatasi con Di Giacomo e portata a termine da Giotti. Le differenze riguarderanno semmai gli esiti: nel poeta veneto improntati a un aristocratico anacro- nismo e caratterizzati da un’intonazione ironico-discorsiva, orgogliosa- mente opposti all’ascetismo della forma e alla religione estetica dei «le- terati»; nel collega milanese, invece, a una partenza radicata nella con- venzione bozzettistica ottocentesca e dialettale nel senso più deteriore dell’aggettivo, corrisponderanno approdi di imprevedibile modernità.

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nica figura che si sollevi dal depresso orizzonte meneghino, schiacciato dalla presenza troppo ingombrante del Porta, è il modesto Rajberti, il medico-poeta, che peraltro avrebbe ottenuto risultati ben più significa- tivi esercitando la propria musa satirica in italiano. Alla crisi della letteratura dialettale del secondo Ottocento concor- revano in primo luogo fattori socio-linguistici. La secolare diglossia su cui si era retta la vita della penisola veniva posta di fronte a un fatto sen- za precedenti: anche l’italiano, come era accaduto secoli prima per le prin- cipali lingue di cultura europee, poteva finalmente contare su una na- zione, che lo aveva adottato come lingua ufficiale. Il rapporto tra lingua e dialetto si modificava. Mentre la lingua si avviava a diventare sempre più un codice veicolare, il dialetto, che proprio nel decennio giolittiano, in concomitanza con la prima grande modernizzazione della società ita- liana, registrava i segni di una contrazione tuttora in corso, tendeva pro- gressivamente ad assumere le caratteristiche di un idioma prezioso. Ciò comportava il venire meno dell’equazione che aveva sempre fondato la poesia dialettale: dialetto uguale lingua della realtà. Ma per capire la svolta che interviene nella poesia dialettale con l’i- nizio del nuovo secolo occorre tenere conto di due altri elementi più pro- priamente letterari. Da una parte la liquidazione dei vecchi schemi del verismo e del positivismo si accompagna a un crescente disimpegno dal- la realtà, con conseguente conquista di un’egemonia sempre più incon- dizionata della lirica. Dall’altra parte la rivoluzione pascoliana si era in- caricata di dimostrare con l’autorevolezza del proprio esempio che la poe- sia non richiedeva più una lingua della poesia e che dunque tutti i codici potevano essere liberamente utilizzati, senza subire i vincoli delle ipote- che retoriche della tradizione. Il che significava per il dialetto la possi- bilità di spaziare dall’epico al lirico, dal comico al sublime. A quei vincoli sarebbe rimasto fedele Tessa, come lo sarebbe rimasta ancora fin verso la metà del nuovo secolo la maggior parte della produ- zione dialettale di livello medio. Se tuttavia egli si sottrae all’interioriz- zazione del dialetto, non per questo sceglie una strada di restaurazione letteraria, come fanno molti modesti seguaci delle tradizioni municipali. La sua opera ci pone infatti di fronte a esiti di estrema modernità, otte- nuti servendosi di soluzioni molto diverse da quelle dei dialettali erme- tizzanti. Tessa opera secondo una strategia che potremmo ricondurre a uno schema di tipo pascoliano. Il poeta di Myricae aveva smantellato la poesia italiana dall’interno, forzandone l’istituto mediante una serie di

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violazioni e di varianti. Tessa fa lo stesso con la tradizione dialettale lom- barda. Prende le mosse da Porta e dalle forme chiuse, pervenendo alla distruzione delle orditure del verso narrativo tradizionale, che esplode in una pluralità di frammenti acustici flottanti sulla pagina. Mentre la so- luzione di Noventa resta di tipo prevalentemente sarcastico e restaura- tivo, il più dotato Tessa punta al nuovo, ma lo raggiunge con gli stru- menti dell’antico. Il risultato sarà una poesia che, nelle sue punte, per originalità di dettato e forza visionaria, per la corposità degli impasti e la verità umana, non può essere paragonata a nulla di quanto è stato scrit- to nel nostro Novecento. Con la peculiarità del loro profilo, i maggiori poemetti tessiani rientrano fra le non moltissime pagine davvero alte del- la letteratura italiana contemporanea.

2. Struttura.

  1. Dall’orrore della storia all’orrido della decadenza biologica.

De là del mur nasce dall’illividirsi degli elementi all’origine del carat- teristico schema primo-novecentesco della passeggiata, di cui peraltro il poemetto tessiano conserva ancora alcuni squarci. Anzi l’andamento più caratteristico di De là del mur, rispetto ad esempio a un testo compatta- mente dostoevskiano come La poesia della Olga, consiste proprio nell’al- ternanza di momenti idillici (la gita fuori porta, dove il promeneur si ri- converte modernamente nel ciclista), passaggi ossessivi (l’incubo nottur- no), squarci visionari (lo scavalcamento del muro) e apparizioni surreali (il famoso «struzz a porta Volta», che prosegue la linea dell’hallucination vraie delle farfallette del finale della Gussona: v. 376, p. 223). La poesia si regge su un meccanismo di tipo antifrastico. In un uni- verso in preda alla follia il mondo bello andrà ricercato paradossalmente proprio a Mombello, che ai milanesi evoca subito l’immagine del mani- comio. De là del mur, scrive Tessa nella pagina del dicitore, è la lirica del- la smania di evadere, di rifugiarsi nella pazzia, nell’ebetismo, nell’ubria- chezza. Il muro, che per Montale era un limite metafisico, diventa in Tes- sa l’inquietante, concretissimo diaframma che separa due diversi tipi di follia. E quella che sta al di qua appare agli occhi del poeta meno prefe- ribile di quella che sta «de là del mur». Né necessariamente i confini tra le due appaiono cosí marcati, se, di ritorno alla «normalità» della Mila-

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ci»). E alla fine restare lí sulla panchina «come on sacch | de strasc, in- semenii...» («come un sacco di stracci, svampito...»). Rien faire comme une bête ricorda un celebre aforisma adorniano. E Tessa: «Vess come la gallina | sull’era, el boeu in stalla!» («Essere come la gallina sull’aia, il bue in stalla!»: cfr. rispettivamente vv. 247-49, 303-4 e 297-98, pp. 205 e 211). Tessa stesso pone in risalto nel commento il disarticolarsi della lirica, che accoglie alla rinfusa e come in una testa malata ricordi, aspirazioni, paesaggi e canzoni. Ma questo non è il modo tipico della costruzione tes- siana? Il che starebbe a significare che il poeta viveva la frammentazio- ne del testo come la risposta consapevolmente patologica alla follia del mondo. Nella sua fuga dalla città Tessa è approdato alla follia e alla ferinità animale. In altri testi il regresso avverrà negli abissi del fisiologico, con un accanimento sull’orrido e sul corrotto: figure devastate dalla consun- zione come On mort in pee o come il protagonista della sceneggiatura ci- nematografica inedita Uomini maledetti o ancora il «bell maghetta», cui le streghe «la vita foeura | coi scinivij | ghe sùscen... foeura» («la vita fuo- ri colle cervella gli succhiano... fuori», vv. 48-50, p. 108) oppure perso- naggi sbandati nella morte come la Gussona, fino al deforme paradigma ricavato da un almanacco dell’Ospizio di Cesano Boscone: dall’orrore della storia all’orrido della decadenza biologica.

  • «Idioti e semi idioti, scemi, ciechi» – t’han miss in lista...
  • «paralitici, vecchi impotenti» – ... in quell prospett te see «dei nostri ricoverati» che gh’óo in studi dedree a quella maistaa...
  • «Epilettici, infermi, orfani di guerra; Totale: Numer: domilatresentses» – 3.
  1. La necrofilia di Tessa.

È questo virulento pessimismo a delineare l’architettura dei due libri tessiani: non semplici raccolte, ma canzonieri montati secondo un preci- so disegno, che, a scanso di equivoci, il poeta stesso si premura di illu-

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strare nelle note d’autore. Il tema mortuario del volume del ’32, annun- ciato nel titolo, ma anche, con accanimento necrofilico, sia dalla sinistra dedica («musocco| campo 61 - fossa 800 | per | questa tomba»– era la sepoltura del padre), sia dall’epigrafe da Turgenev («La cosa più inte- ressante, | nella vita, è la morte»), è ripreso dallo schema del «piccolo ci- clo che sta fra due Morti. Una vecchia pianta e una vecchia signora», cioè La pobbia de Cà Colonetta e La mort della Gussona. Al centro del li- bro sta il «funebre baccanale» di Caporetto 1917, mentre nel «dittico» di Cittàa «si adombra un aspetto della vita moderna. Il persecutore in caccia e la vittima all’erta». Da questo universo in cui il male è dilagan- te non c’è che la salvezza della «piccola oasi di pace» del Gatt del sur Pi- nin o i «ricordi sereni di tempi lontani» di Sui scal e El cavall de bara (No- ta, p. 143). Ricorrono tutti gli estremi per giustificare l’epiteto di «eter- no menagramm» con cui il poeta stesso si definisce in un articolo del ’ sul «Corriere del Ticino». Il raccordo con De là del mur è indicato in Primavera, dove risuonava «la prima, profonda nota di dolore: preludio alla vita che dura». Ri- prendendo il discorso nella nota al secondo libro, Tessa confermava la sua desolata diagnosi: «Dura tuttora, ahimè! immersa in un’atmosfera da catastrofe». Del primitivo titolo della raccolta, I cinqu settacuu (ma Isella segnala anche la dicitura «La Mort l’è chi per chi», figurante su uno dei manoscritti) 4 , è rimasto «lo spirito che la dettò».

I deslipp di Càmol è la prima caduta; è il settacuu famigliare. Poi, in De là del mur, c’è la rovina dell’intelletto, cui segue, colla Poesia della Ol- ga, lo sfacelo morale. Chiude il ciclo dei tre saggi di centro On mort in pee. Qui c’è qualcosa di più e di peggio della naturale conclusione della vita: c’è la morte stessa annidata talvolta nell’uomo che pur cammina e pur mangia e beve ma che, per essa, è già un fantasma che tutti fuggono. La gente è fatta cosí: non aut pati, aut mori, ma soffrire e morire, l’uno e l’altro. Il dolore ci segue e la morte ci aspetta. Ed ecco Viv, a chiusura del libro, ecco il trit- tico del nostro viaggio con questa meta e con questo triste compagno. (Nota, p. 327). Il tono dei due libri non è probabilmente cosí omogeneo come Tessa vorrebbe farci credere. Ci sono momenti di caduta di tensione, nei qua- li riaffiora l’idillio dialettale. Il forte dislivello dei testi concorre a impe- dire la lettura unitaria suggerita da Tessa. Ma proprio l’autoesegesi del- le due raccolte riesce quanto mai preziosa al fine di chiarire le intenzio- ni dell’autore. Del resto la sua diagnosi mi pare perfettamente centrata per quanto riguarda i testi maggiori. Né la sanzione finale delle «poesie fatte» sembra sostanzialmente smentire l’interpretazione tessiana.

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centri urbani, sono già un emblema della poesia dialettale e del suo or- goglioso ritardo verso quella in lingua, travolta dall’innovazione nove- centesca. L’autore di L’è el dì di Mort, alegher!, confermando una volta di più l’eccentricità della propria posizione, rappresenta la sola eccezione a que- sta regola. Ma subito va precisato che esistono almeno due Tessa: il poe- ta di una cordiale città, tutta raccolta intorno alla Madonnina del Duo- mo, coi suoi tipi curiosi e le impagabili battute di una parlata affabil- mente feriale, e, all’opposto, il poeta visionario della degradazione e del- la follia, quale emerge dalla Poesia della Olga e da De là del mur. Va notato che Tessa non sembra conoscere mezze misure. O è l’autore sconvolgente di pochi altissimi testi –Caporetto 1917, De là del mur, La poesia della Olga, A Carlo Porta, in parte La mort della Gussona, Tossan in amor– o, quando manchi quella tensione poetica, è l’autore di versi di imbaraz- zante modestia. Quello che semmai colpisce nella sua operazione poeti- ca è la capacità di attingere la tragedia partendo da quel mondo tutto sommato piuttosto angusto e limitato. Malgrado le sue discese negli inferi della prostituzione, del degrado fisico e della follia, l’immagine del Villon non si adatta alla pacifica fi- gura dell’avvocato, che, lontano da ogni maledettismo, guarda al suo mon- do con viva partecipazione sentimentale. Chi fosse il Tessa ce lo dicono meglio di qualunque altra testimonianza le prose di Ore di città. In esse il poeta rievoca l’antica semplicità della vita milanese, con i suoi aned- doti umoristici e la stralunata saggezza del mondo popolare. È una città provinciale, in cui tutti parlano ancora dialetto come nella città portia- na (e dialetto significa riconoscimento: «Mi fa l’impressione che se qual- cuno parlasse milanese mi ritroverei, ma non parlano e mi sento lonta- no, estraneo...») 1. Solo in quegli anni i picconi e le ruspe delle demoli- zioni e le fanfare della modernizzazione fascista stanno risvegliandola dal suo sonno secolare. La disposizione più profonda del poeta è di tipo ma- linconico-nostalgico. In una nota autobiografica premessa a Finester e ri- ferita da Isella il poeta scrive:

Due soci che avevano il loro studio di macchine da tessitura in via S. Andrea e che d’anno in anno capivano sempre meno dei nuovi indirizzi dell’industria, si di- cevano l’un l’altro per confortarsi: «Nun semm vecc!» Questo è pure il mio motto. Fra le nuove generazioni io mi sento decrepito. Ho cent’anni 2. Ancora in una prosa di Ore di città osserva: «Nell’arte e nella vita Eli-

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sabetta Keller non ha il culto del passato come certuni – me compreso» 3. Mentre in apertura a Brutte fotografie di un bel mondo, del 1937-38, an- nota: «Non riesco a distaccarmi dai morti, non so vivere più» 4. E in A Carlo Porta: «ai coss d’incoeu | e alla gent che ven su d’intornovia | var- di senza capí» («guardo alle cose di oggi e alla gente che vien su tutt’at- torno senza capire», vv. 211-12, p. 405). La poesia di Tessa riflette una drammatica accelerazione storica, che l’autore vive con lo sgomento e lo scandalo di chi contempla inorridito il nuovo appigliandosi all’antico (il «mond che se sputtana a la roversa»). L’autore di L’è el dì di Mort sembra ripetere a distanza l’esperienza de- gli scapigliati. Anch’essi all’indomani dell’Unità non accettavano le nuo- ve strutture della società borghese, in cui vedevano la negazione dei lo- ro ideali estetici, e vi si ribellavano, senza peraltro individuare un qual- siasi orizzonte alternativo. La disperazione e la dissipazione erano l’al- tra faccia del loro anarchismo. Il Tessa vive tra due condizioni antropologiche: «el veggiumm», il vecchiume della Vetra, e la «primavera noeuva», la dannunziana «Italia renascenta» (l’intento di prendere in contropiede l’immaginifico si ri- presenta in Tessa, dal «Cantemm, Olga, cantemm de qui tosann | anti- ch la grama sorta», vv. 41-42, p. 235, beffarda eco del «Cantiamo, can- tiamo dei nostri avi», all’«Italia renascenta» che rimanda al nome dei grandi magazzini milanesi La Rinascente, dovuto appunto all’autore del- l’Alcyone). Questo attrito vecchio-nuovo produrrebbe i consueti impa- sti melassosi cari alla nostalgia dialettale, se Tessa non investisse la ma- teria con un violento processo di identificazione viscerale. Prostitute, ir- regolari, matti non sono che le proiezioni del proprio rifiuto del mondo. È attraverso di esso che egli giunge al naturalistico «dramma di cui nes- suno si cura» dell’introduzione a Vecchia Europa 5. Unico tra i dialettali Tessa raffigura la moderna esperienza urbana dell’anonimato e dell’e- straneità («Anche a quest’ora tarda quanta gente da queste parti!») 6 , con- templandola dall’osservatorio degli emarginati, dei disadattati, dei de- relitti («cantemm de qui tosann | antich la grama sorta», «cantiamo di quelle ragazze antiche la grama sorte»). In tal senso il dialetto è la lingua di una condizione antropologico-sociale più arcaica in fase di liquidazio- ne, la lingua di quel mondo sconfitto dalla modernizzazione, cui il poe- ta guarda con struggimento inconsolabile. L’immagine di una realtà che si decompone percorre la sceneggiatu- ra Uomini maledetti: è l’allegoria dello sfasciarsi dell’antico, a partire dal- la malattia che travolge, insieme al corpo di un industriale, la sua fab-

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39). Per rifarci a un’opposizione cara a Walter Benjamin: da una parte il flâneur dall’altra i ritmi tayloristici della società. Il movimento che domina la poesia di Tessa è di duplice allontana- mento dalla città: nello spazio verso la campagna, nel tempo in direzio- ne di un’altra, più civile Milano. La poesia A Carlo Porta e le prose di Brutte fotografie di un bel mondo documentano questa seconda fuga: «Sia- mo ridotti a un decimo della felicità che si godeva nei primi anni del se- colo». Quanto all’evasione nel contado, basta leggere ancora una volta Primavera: «Ciappi e luster, voo via, | via de chì, che son stuff» («Pren- do il largo, vado via, via di qui, che sono stanco», vv. 81-82, p. 44). E poco più avanti: «Voo foeura || in campagna, là giò | cont i besti vuj stà, | el viran mi vuj fà, | pensacch pu, se se po, || dacch on taj!» («Vado fuo- ri in campagna, laggiù colle bestie voglio stare, il bifolco voglio fare, non pensarci più se è possibile, finirla!», vv. 96-101, p. 44). In nuce c’è già qui il regresso, che, con ben altra drammaticità, sarà al centro di De là del mur. Il presupposto è il rifiuto della vita activa, del borghese e meneghino defà. «Là non facevo niente [...]. Non ho mai fatto niente nella vita, ho sempre guardato gli altri muoversi», annotava Tessa in Brutte fotografie di un bel mondo 8. E nella Poesia della Olga dirà «De quell nagott che foo, de quell’eterno | nagotta che mi foo, no me rebelli» («Da quel niente che faccio, da quell’eterno niente che io faccio, non mi riscuoto», vv. 1-2, p. 239). All’altezza del duplice Dialogo del Poeta e del Consigliere Delegato, in apertura a De là del mur, la polemica tessiana si è precisata anche nei suoi riferimenti economico-sociali. Le due prose, datate 1936 e 1937, si in- caricano di tratteggiare lo sfondo su cui si accampano le poesie della rac- colta: i grandi testi della follia e della degradazione umana sono i pro- dotti di un mondo dominato dalla logica economicistica e strumentale, di cui si fa interprete la figura un po’ alla Grosz del Consigliere Delega- to. Quell’uomo senza scrupoli, perfetto esponente di un mondo di pe- scecani, che ha il suo simbolo nella violenza del traffico automobilistico

  • lo si ritrova dal Cavall de bara a A Carlo Porta, passando attraverso De là del mur: «(... un utomôbel... s’cioppa!) [...] (... macchin... macchin... la spoeula | fan...)», vv. 44-48, p. 179 – è l’emblema dell’universo con cui deve misurarsi l’autore: poesia e capitalismo. Che Tessa sia perve- nuto a una contrapposizione tanto nuda e lucida mi sembra un ulteriore segno della sua modernità. Nessun altro poeta italiano giunge in quegli anni a una formulazione altrettanto netta, compreso il corollario dell’i-

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nutilità della poesia, mirabilmente fissato nell’indifferente sordità del ca- pitano d’industria. Il bersaglio dell’anticapitalismo romantico di Tessa è quella che uno storico inglese ha definito la modernizzazione reazionaria. Il poeta, soli- tamente tanto controllato, si lascia andare in un passo di L’uomo dei moc- colotti a una confessione, che ci fa capire da quali posizioni sociologiche egli contestasse la società del suo tempo. Discorrendo dell’amica pittri- ce Elisabetta Keller, notava: «Che le valse l’intuito dell’arte e la signo- rilità del tratto? Il passato conta sempre per qualche cosa o pro o contro nella vita dell’uomo. La gente non ti considera se scopre che tu eri di più di quello che sei e ti pospone a chi in altri tempi faceva lo spazzacamino o il doganiere» 9. Tessa esprime dunque la resistenza della vecchia borghesia delle pro- fessioni ai nuovi ceti rampanti saliti alla ribalta economico-sociale di con- serva con i processi di razionalizzazione produttiva, cui per esempio guar- dava con favore negli anni Trenta Roberto Tremelloni. Questo spiega il carattere strettamente reazionario dell’antifascismo tessiano. Sonno («In sto mond birba, pien de travaij, | l’unech remedi l’è de dormí», «In que- sto mondo furfante, pieno di affanni, l’unico rimedio è dormire», Navi- li, vv. 19-20, p. 430) e accecamento (si pensi all’immagine dello struzzo in De là del mur o alla nebbia che cancella Milano in A Carlo Porta: «Neb- bia! Nebbia ven su!, vólzet fumeri | di riser, di marscitt! Nebbia ven su! | Tra el Redefoss, el Lamber e l’Olona, | scigheron della bassa, | im- pattònom Milan, sfóndemel sott!», «Nebbia! Nebbia, vieni su. Alzati, fumea delle risaie e delle marcite. Nebbia vieni su. Tra il Redefossi, il Lambro e l’Olona, tu, nebbione della Bassa, avvolgimi Milano nella tua coltre, sprofondamelo sotto!», vv. 18-22, p. 392) sono gli stati in cui re- gredisce il soggetto posto di fronte alla realtà del regime. Quanto al fan- tasma della morte, come s’è visto, la sua presenza riesce addirittura os- sessiva nella poesia di Tessa. La poesia A Carlo Porta chiarisce meglio di qualunque altra la posi- zione ideologica del Tessa. Il testo è stato letto come un coraggioso ma- nifesto di antifascismo. E certamente è difficile trovare nella produzio- ne coeva un’invettiva altrettanto violenta contro le dittature. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare come nei versi prenda forma una po- lemica contro il potere assai più genericamente qualunquista e reaziona- ria. Nihil sub sole novi sembra suggerire Tessa quando ricorda che «no- bel» e «marchesononn» imperversavano nella Milano portiana «giust co- me al dì d’incoeu», vv. 104-6, p. 399). O quando pochi versi dopo com-

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94258-Brevini, Tessa - L’è el dì di Mort, alegher!

Corso: Letteratura italiana (67170)

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L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur di Delio Tessa
franco brevini
1. Genesi e storia.
1.1. «Una vergogna della critica italiana».
Un lettore raffinato come Pietro Paolo Trompeo, non certo sospet-
tabile di tendenziosità meneghina, scriveva nel 1950 che se è necessario
studiare il greco per leggere Saffo, bisogna imparare il milanese per ca-
pire Tessa1. Il lusinghiero apprezzamento dell’illustre francesista roma-
no riesce quanto mai caratteristico della critica tessiana: isolati, autore-
voli giudizi, provengano essi da Croce o da Pasolini, da Linati o da Men-
galdo, da Fortini o da Isella, campeggianti in un panorama di generale
indifferenza. Tanto che ancora nel 1978, presentando Tessa nella bene-
merita antologia Poeti italiani del Novecento, Mengaldo poteva denun-
ciare nel «disinteresse per questo poeta, uno dei più grandi del nostro
Novecento senza distinzione di linguaggio, una vergogna della critica ita-
liana»2.
È noto come nel corso degli anni Sessanta-Settanta si sia consumata
la crisi della vecchia storiografia letteraria fondata sulle riviste e sui grup-
pi, all’origine del primato accordato alla linea novecentesco-ermetica,
dalla «Voce» a Ungaretti. La ripresa di interesse verso Tessa, culminata
nella fondamentale edizione critica delle poesie allestita da Dante Isella
nell’85, si colloca in quel clima di rinnovamento degli studi. Si rendeva
finalmente possibile, come annotava Fortini nel 1977, il recupero di quan-
to di espressionistico, plurilinguistico e dialettale si è manifestato negli
scorsi sessant’anni3.
Eppure, se oggi le poesie di Tessa tornano a essere accessibili, dopo
una lunga assenza dalla scena editoriale, se nessuno dubita più del valo-
re del poeta milanese, la sua opera stenta ancora a trovare un’adeguata
considerazione critica. Continuano infatti a mancare, non si dice una
buona monografia, ma indagini più ravvicinate dei suoi testi. Per non di-