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Economia urbana - RIassunto

Corso

Economia urbana e regionale (57775)

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Anno accademico: 2019/2020

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ANALISI ECONOMICA DEL TERRITORIO

  • 8 Sviluppo e competitività dei sistemi urbani
    • 8 Domanda e offerta di economie di agglomerazione
    • 8 La crescita urbana
    • 8 Le diseconomie di agglomerazione
    • 8 La teoria del ciclo di vita delle città
    • 8 La città
  • 9 Fondamenti e sviluppi teorici di economia urbana
    • 9 La città nell’economia classica
    • 9 La città nell’economia urbana odierna

Parte I

Aspetti teorici e metodologici

1 Nozioni introduttive di carattere generale

La nascita dell’analisi economica regionale è da ricondurre al processo che ha determinato le diffe- renti modalità di sviluppo riscontrabili tra le varie aree territoriali che compongono un determinato paese o sistema economico nazionale. Tale processo porta alla presenza di squilibri regionali, nati principalmente dalla prima rivoluzione industriale (fine XVIII Secolo), dovuti alla concentrazione geografica delle iniziative economiche in talune regioni e all’impoverimento di altri territori. Lo sviluppo tende a concentrarsi vicino alle fonti di energia, alle zone di attività produttrici di pro- dotti di base, alle importanti vie di comunicazione o nei centri urbani. La formazione di imprese oligopolistiche, la nascita di diversi settori produttivi in certe regioni rispetto ad altre fa nascere importanti squilibri regionali, che non fanno aumentare il prodotto nazionale o pro capite. Que- sti squilibri danno origine a una richiesta di intervento pubblico, dato che queste differenze regionali non tendono a scomparire da sole ma tendono a permanere nel tempo e, a volte, ad accentuarsi. Questo portò alla nascita del divario tra nord e sud.

Dal 1891 al 2004, nelle regioni italiane si sono individuate epoche diverse:

  • periodi di aumento dei divari regionali (1861-1913, 1920-1939, 1974-2004);

  • periodi di diminuzione dei divari regionali (1951-1973).

La scienza economica regionale, nata negli anni Cinquanta, si è affermata anche grazie alla teoria Ricardiana sulla rendita fondiaria, la teoria degli scambi internazionali e le teorie sulla localizzazione delle attività produttive. L’economia regionale studia sia le dinamiche temporali sia quelle spaziali e, per il suo sviluppo, é stata fondamentale l’influenza della teoria dello sviluppo economico. Le principali caratteristiche di questa disciplina sono:

  • interdisciplinarità: discipline collegate allo studio dell’economia regionale (es. fenomeni di trasformazione sociale, la demografia, la sociologia, la geografia economica, la storia, l’urbanistica, il diritto... );

  • pragmatismo: l’economia regionale è una scienza concreta e pratica;

  • globalità: l’economia regionale tende a studiare tutta la complessa realtà di una; regione e della sua evoluzione, in modo appunto globale;

  • il rilievo di alcuni strumenti teorici;

  • l’autonomia di tale disciplina.

1 Limiti e sviluppi recenti dell’economia regionale

L’analisi regionale oltre a non essere del tutto completa, presenta dei limiti. Per quanto riguarda gli avanzamenti sono stati introdotti nei modelli macroeconomici di crescita regionale. Un altro ambito d’evoluzione riguarda i cambiamenti intercorsi nello sviluppo regionale. Altri contributi sono stati apportati anche sul ruolo della conoscenza, del cambiamento tecnologico e dell’innova- zione nella crescita regionale. Un ultimo concetto riguarda i concetti di capitale sociale (bagaglio relazionale e valoriale che un soggetto realizza nel corso della propria esistenza in una determinata società) e territoriale (clima, dotazione, tradizioni, risorse naturali, dimensioni, qualità della vita, agglomerazioni economiche, distretti industriali, reti commerciali, solidarietà... ).

  • Nodalità (o polarizzazione): si sviluppa intorno a qualche agglomerato urbano (di solito di grandi dimensioni);

  • Programmazione: corrispondenza tra l’area geografica e l’ambito territoriale affidato alle istituzioni preposte per mettere in atto decisioni di politica economica regionale.

Tali approcci sono strettamente interconnessi, tanto che il secondo e il terzo approccio sono delle varianti del primo. Una regione sarà quindi considerabile come:

  1. Regione omogenea: per individuare una determinata regione si potrebbero unire insieme delle aree geografiche, quando queste aree presentano caratteristiche uniformi (ma per altri aspetti possono risultare difformi quindi è risultato difficile delimitare i confini di queste regioni). Per superare questa difficoltà l’economista può adottare il criterio dei livelli di reddito pro capite (simili) anche se poi il concetto di dimensione spaziale viene meno. Questo approccio dell’analisi delle regioni viene definito “macroeconomia interregionale” derivante dall’applicazione a livello regionale dei modelli di reddito e di crescita formulati a livello nazionale.

  2. Regione nodale: la caratteristica più naturale dell’economia spaziale è rappresentata dalla non omogeneità. Esistono infatti agglomerazioni, a tutti i livelli, nella distribuzione sia delle attività economiche che della popolazione (in determinati punti nello spazio). All’interno di un’economia nazionale, di solito, emergono alcune regioni di maggiore dimensione rispetto ad altre con quote più alte di attività produttive. Tutto ciò porta al concetto di regione nodale o polarizzata, la quale è composta da unità eterogenee, che però fra loro sono strettamente connesse dal punto di vista funzionale (fenomeni di flusso uguali su tutto lo spazio). I flussi più consistenti tendono a indirizzarsi verso e dai nodi di maggiore rilevanza (come grandi città metropolitane). Intorno ad ogni nodo (N ) esiste una zona d’influenza (Z) dove vi è un’inte- razione complessa ossia i flussi (F ) di diverse variabili socio-economiche. L’intensità dei flussi varia in modo diretto rispetto alla forza d’attrazione esercitata dal nodo e inversamente alla distanza di ogni punto da tale nodo.

  3. Regione di programmazione: è un’area individuata da confini amministrativi sulla quale vengono applicate e attuate delle decisioni con valenza economica (aree amministrative o giurisdizioni politiche). Le regioni di programmazione possono essere delimitate anche in forma incoerente, senza tenere in debito conto i legami funzionali tra le varie aree. Può non risultare assicurata una perfetta corrispondenza tra le aree nodali e gli ambiti amministrativi, che invece risulterebbe necessaria, dal momento che le aree nodali sono le unità ottimali per le scelte di programmazione economica e di pianificazione. L’unità di pianificazione può variare a seconda del tipo e della dimensione del problema in esame. Le decisioni a breve termine possono essere prese per aree abbastanza piccole, mentre quelle a medio termine vanno prese a livello di regioni e infine quelle a lungo termine su aree ancora più estese. In certe circostanze, il decentramento spaziale del potere programmatorio e decisionale fornisce dei vantaggi: aumento della partecipazione democratica, maggiore efficienza nella raccolta, elaborazione e diffusione delle informazioni, oltre che nell’assunzione di decisioni.

2 Crescita e sviluppo

La crescita di un sistema economico è definito come un aumento della produzione per unità di fattori produttivi impiegati (produttività totale). Lo sviluppo è definito come un miglioramento, qualitativo e quantitativo, del sistema socio-economico nel suo insieme, con cambiamenti nella di- stribuzione settoriale sia dei fattori produttivi che del reddito. Il processo economico trae origine dall’incontro sul mercato di tre categorie di soggetti: consumato- ri, imprenditori e coloro che offrono servizi produttivi, i quali hanno come obiettivo il conseguimento della loro massima utilità individuale. Si tratta di determinare le quantità di beni prodotti e scam- biati e dei prezzi di tali scambi (in condizioni di equilibrio). La crescita di un sistema economico o regionale è interpretabile come un mero incremento della produzione e del reddito. Nel secondo

dopoguerra (anni Cinquanta) il concetto di sviluppo è diventato più ampio e complesso, caratteriz- zandosi come un processo che ha luogo non solo nel tempo ma anche nello spazio. Sono lo spazio geografico e la sua peculiarità della prevalente discontinuità dei caratteri economici, ambientali, culturali e sociali a incidere in modo significativo sullo sviluppo a livello regionale e sulla presenza di suoi differenziali territoriali (cioè fra regioni ma anche singole città).

La teoria economica negli ultimi due secoli si è trovata ad affrontare problemi e tematiche co- me quelle ambientali (conservazione risorse ambientali, controllo delle sostanze nocive, varie forme di inquinamento), trattate da economisti d’impostazione ambientale (policy maker). Nel 1987 la WCED (World Commission on Environment and Development) introduce il concetto di sviluppo sostenibile, come modello da seguire per i decenni successivi come approccio integrato alla poli- tica economica.

La soddisfazione di bisogni e aspirazioni umane rimangono i principali obiettivi dello sviluppo (oltre che non compromettere l’abilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni). Lo sviluppo va però considerato sostenibile solo nel caso in cui:

  • esso soddisfi i bisogni primari di tutti i popoli contemporaneamente (aspirazioni ad una vita migliore);

  • il diminuire delle risorse non rinnovabili precluda il meno possibile ogni opportunità futura.

Sono riconosciute due visioni principali di sviluppo sostenibile: una prima, più ristretta, che si riferisce agli aspetti di gestione ambientale e alle risorse limitate e un’altra, più ampia, (condivi- sa dalla WCED) che comprende al suo interno anche lo sviluppo sociale ed economico. Ciò che emerge è una maggiore attenzione per la qualità della vita, la disponibilità di risorse e una equa distribuzione delle ricchezze.

Lo sviluppo è un insieme di mete o obiettivi desiderabili per una società, che non possono comprendere come unico obiettivo della crescita del reddito pro-capite. Tuttavia il significato si può estendere ulteriormente. Si intendono anche l’insieme delle modifiche nella struttura econo- mica, sociale, politica che sono necessarie per realizzare la transazione da una economia agricola pre-capitalista ad una capitalista industriale. Sviluppo quindi significa quindi miglioramento e progresso. L’utilità, intesa come benessere o soddisfazione, viene incrementata dallo sviluppo eco- nomico, sebbene il fattore dominante è quello del reddito pro capite. Ma ci sono altri fattori come la qualità dell’ambiente in cui la popolazione vive. Mentre per crescita economica sostenibile s’intende un aumento del livello del PIL (mantenuto nel tempo), per lo sviluppo sostenibile l’obiet- tivo è di realizzare la crescita sostenibile di un insieme di variabili (che però possono ostacolarne altri). Il problema posto dallo sviluppo sostenibile è sostenere un processo di sviluppo e crescita che devono procedere assieme:

  • sostenibilità intesa come condizione per la conservazione di uno sviluppo duraturo;

  • sviluppo inteso come modo per superare la povertà, amministrando le risorse per affermare equità.

Un principio fondamentale è il principio interregionale che si riferisce all’assenza di confini per la dinamica ambientale. In epoca recente si è sentita l’esigenza di un concetto più ampio di sviluppo che fosse in grado di tenere contro del rischio globale. La questione dello sviluppo regionale è stata promossa dal regionalismo e dalla geografia economica, ma solo dopo la seconda guerra mondiale hanno preso avvio politiche di sviluppo regionale. Tra gli anni Cinquanta e Settanta sono maturati tre passaggi nelle teorie dello sviluppo:

  1. dagli approcci esogeni a quelli endogeni;

  2. dalla localizzazione al dinamismo relazionale;

  3. dall’orientamento ai fattori di produzione, all’orientamento agli attori.

  • nella concentrazione di competenze professionali elevate;

  • nella formazione (a monte e a valle) del processo produttivo e aumentarne il valore;

  • nella disponibilità di una maggior quantità di informazioni tecniche;

  • nella formazione di una cultura industriale.

Le diseconomie di localizzazione sono dovute al maggior prezzo pagato dalle imprese per l’otteni- mento dei fattori produttivi, causato da un eccesso di domanda oppure da una riduzione dei prezzi dei prodotti venduti (a causa della concorrenza).

Le economie esterne all’industria (di urbanizzazione) consistono nei legami tra attività eco- nomiche appartenenti a diversi settori per il fatto di essere localizzate nei pressi della città. I vantaggi sono:

  • possibilità di disporre di informazioni intersettoriali;

  • possibilità di accedere ad una maggior quantità e varietà di servizi (privati e pubblici, vendibili e non);

  • possibilità di disporre di un ampio mercato di sbocco;

  • presenza di un mercato del lavoro più qualificato.

Le diseconomie di urbanizzazione sono dovute a:

  • maggiori costi da sostenere per acquisire i fattori produttivi ubicati nelle città;

  • costi di congestione (traffico e inquinamento) sopportati soprattutto nelle grandi aree urbane;

  • l’elevato livello della rendita (ovvero il prezzo da pagare da parte delle imprese per accedere alle economie di urbanizzazione).

Nel caso in cui le economie superino le diseconomie, si osserverà una concentrazione nello spazio delle attività produttive; viceversa le attività produttive si disperderanno nello spazio.

Capello cerca di dimostrare che una concettualizzazione più completa possa essere colta da un approccio multidimensionale, capace di coniugare i tre fondamentali elementi delle economie di ag- glomerazione (la dimensione settoriale, quella socio-culturale/cognitiva e quella geografica) e i tre corrispondenti elementi microeconomici che le caratterizzano: le indivisibilità, le sinergie e la pros- simità fisica. Le indivisibilità generano economie di scala ed emergono in un approccio settoriale. Le sinergie permettono flessibilità nella produzione e sono legate alla dimensione socio-culturale. La prossimità fisica è invece legata alla dimensione spaziale delle economie di agglomerazione.

3 Le teorie fondamentali sulla localizzazione delle attività

produttive

Le teorie sulla localizzazione delle attività produttive sono quelle teorie che intendono fornire elementi interpretativi circa le tendenze che sono seguite dalle imprese nella scelta della loro concreta ubicazione territoriale. Cercano di individuare i fattori che guidano gli imprenditori nel fare la scelta (di tipo razionale) localizzativa per le loro imprese. Le teorie sono tre e fanno riferimento ognuna ad un diverso settore produttivo (l’agricoltura, l’industria e il settore terziario).

3 Il modello di Von Thünen

Modello dell’inizio ’800 che riguarda la localizzazione delle attività produttive. Non solo è impor- tante perché da esso derivano tutte le principali teorie della localizzazione urbana delle attività economiche, ma anche perché è il primo modello che si basa sulla duplice ipotesi di uno spazio di produzione continuo e di un unico mercato di sbocco (puntiforme). Le ipotesi sulle quali si basa questo modello sono:

  • l’esistenza di uno spazio omogeneo fertile e dotato di infrastrutture di trasporto;

  • l’esistenza di un unico mercato di sbocco dei beni agricoli, che si trova al centro; della regione considerata costituita da un nucleo urbano;

  • l’esistenza di una domanda di beni illimitata;

  • uniforme distribuzione nello spazio dei fattori produttivi;

  • l’adozione di una funzione di produzione specifica per ogni tipo di bene agricolo;

  • l’esistenza di condizioni di concorrenza perfetta sul mercato;

  • i costi unitari di trasporto di ciascun tipo di prodotto sono costanti nello spazio.

Il problema che il modello intende affrontare e risolvere è quello di individuare la più conveniente destinazione da attribuire alle terre che sono disposte intorno al centro di mercato. L’esposizione analitica è basata sul concetto di rendita: prezzo della terra che il coltivatore è disposto a pagare (al suo proprietario), ottenuto sottraendo dai ricavi totali i costi di trasporto e quelli di produzione, oltre ad una quota per l’imprenditore-coltivatore. L’equazione (3) rappresenta il prezzo della terra che il coltivatore è disposto a pagare al variare della distanza di un determinato terreno dal mercato di sbocco, tenendo conto che a una minor distanza dal centro corrisponde un risparmio nei costi totali di trasporto sostenuti dall’imprenditore agricolo. La rendita è quindi un risparmio nei costi di trasporto.

R(d) = x(p − c − dt) (3)

dove:

R : rendita p : prezzo unitario c : costo unitario t : costo di trasporto per unità di prodotto d : distanza dal luogo di produzione alla città centrale (o mercato)

Ipotizzando che in una determinata regione operino solo tre coltivatori, ciascuno dei quali produce un prodotto con diversa deperibilità, si configurano curve di disponibilità contraddistinte da posizioni e inclinazioni diverse. Il modello di Von Thünen ha il merito di evidenziare come la distanza in cui i terreni si trovano rispetto al centro costituisca il fattore determinante della diversa rendita dei suoli e come la distanza influisca sulla localizzazione delle attività produttive.

3 La teoria di Weber

Formulata a inizio ’900, è il più significativo contributo teorico sulla localizzazione delle attività industriali. Esso considera i processi di ubicazione delle imprese industriali in funzione dei costi di trasporto (distanza) e del peso di localizzazione (agglomerazione), al fine di individuare la localizzazione ottimale (per minimizzare i costi totali di produzione sostenuti dalle loro imprese). Questo modello si basa su una serie di ipotesi:

  • l’impiego nel processo produttivo di due materie prime localizzate;

  • la presenza di un mercato di sbocco del bene prodotto;

  • condizioni di concorrenza perfetta;

  • rigidità della domanda (da parte del consumatore) del bene finale rispetto al suo prezzo;

  • la disponibilità per le imprese di un’unica tecnica di produzione.

N. Il mercato è puntiforme.

La scelta localizzativa da parte di ciascuna impresa è effettuata in due stadi:

3 Lösch

Il punto di partenza può essere individuato nella costruzione della curva di “domanda spaziale individuale”, la quale evidenzia le diverse quantità del bene o servizi (X) che ogni individuo è disposto ad acquistare, da una determinata impresa (i), in funzione, non solo del prezzo di produzione o di vendita, ma anche della distanza che separa lo stesso consumatore dall’impresa. La costruzione della curva di domanda spaziale può essere rappresentata mediante quattro grafici:

  1. il primo rappresenta la relazione prezzo-distanza;

  2. il secondo rappresenta la curva di domanda individuale;

  3. il terzo rappresenta la trasposizione della variabile quantità;

  4. il quarto rappresenta la curva di domanda spaziale individuale.

Se i consumatori hanno identiche curve di domanda spaziale individuale, la domanda del bene sarà rappresentata dalla somma delle singole quantità domandate dai consumatori. Nel caso di mercato lineare, la domanda spaziale è rappresentata dall’area sottostante la curva di domanda individuale moltiplicata per la densità di popolazione (q). Nel caso di mercato circolare, la domanda spaziale è rappresentata dal volume del cono di domanda Lösch moltiplicato per la densità di popolazione (q). Si suppone che il mercato sia formato da molte aree circolari non sovrapposte che riescono a massimizzare il profitto. Ma potrebbe esserci concorrenza con l’entrata di nuove imprese nel mercato. In realtà nel lungo periodo il mercato spaziale non sarà formato da aree di forma circolare, bensì da esagoni regolari (niente aree di sovrapposizione).

3 Christaller

Il modello si basa sull’esistenza di un centro urbano in corrispondenza del quale si producono e si offrono beni e servizi alla popolazione spazialmente dispersa su un territorio omogeneo (o isotropo). Al fine di determinare la zona d’influenza di un’impresa vengono introdotti due concetti:

  1. Portata: individua l’ambito territoriale entro il quale il servizio può essere offerto, tenendo conto della distanza e della frequenza che il consumatore è disposto a percorrere per utilizzare tale servizio;

  2. Soglia: individua il livello minimo di domanda che è necessario che venga avanzata per poter produrre il servizio in modo efficiente.

Ogni servizio viene erogato dall’impresa se la dimensione della sua portata supera quella della soglia. La località centrale è collocata al centro dell’area di mercato circolare, il quale rappresenta la localizzazione ottimale (minimizzazione dei costi). In base a questi due elementi si determina l’area che caratterizza la zona d’influenza di un’impresa, la quale (in condizioni di equilibrio) può essere rappresentata da un esagono. Vengono rispettate così le seguenti tre condizioni:

  1. la mancanza di concorrenza tra i produttori;

  2. l’equità distributiva, in quanto viene soddisfatta tutta la domanda dei consumatori;

  3. la minimizzazione dei costi di trasporto per i consumatori.

Tuttavia i beni e i servizi non sono tutti uguali quindi va considerato il diverso "rango" derivante dalla loro complessità, sia in termini di portata che di soglia.

Rango: insieme degli elementi che consentono la produzione a condizioni convenienti e che si traducono in valori della soglia tali da assicurare un guadagno dalla vendita del bene o servizio. La frequenza della disponibilità di un certo bene/servizio in una certa area dipende dal relativo rango (rango elevato = poche località; rango basso = molte località). Lo stesso concetto può es- sere applicato alla portata (servizi di alta qualità prodotti nelle grandi città = portata maggiore; qualità inferiore = portata inferiore). Si delineano così tre principi:

  • il principio del mercato: minimizzare il numero dei centri;

  • il principio di trasporto: ottimizzare la localizzazione dei centri di ordine; inferiore verso quelli di ordine superiore

  • il principio amministrativo: evita conflitti di competenze tra i centri di ordine superiore per amministrare quelli inferiori.

Secondo Christaller la ripartizione gerarchica delle località si realizza in modo tale che una località che offre beni e servizi di livello gerarchico superiore fornisce anche tutti quelli di livello inferiore. Esiste una relazione fissa tra i diversi livelli gerarchici, in quanto ogni centro di ordine superiore domina un certo numero di centri di ordine inferiore e tale valore rimane costante lungo la gerarchia. Un altro presupposto è che vi sia una relazione stabile anche tra la popolazione di una località centrale e la sua area di mercato. I postulati del modello di Christaller sono quindi:

  • uno spazio geografico omogeneo;

  • un costo di trasporto proporzionale alla distanza percorsa o da percorrere;

  • il comportamento ottimale dei consumatori;

  • l’equità nell’offerta del servizio;

  • la presenza di economie di scala per le imprese.

3 Lösch II

Uno dei principali limiti del modello di Christaller è dato dall’ipotesi dell’esistenza di un fattore di proporzionalità costante lungo la gerarchia urbana. Lösch cercò di superare questo limite. Il nuovo modello di Lösch prevede sempre una struttura esagonale che si caratterizza per:

  • la competizione tra imprese;

  • razionalità dei consumatori, i quali si rivolgono verso i produttori più vicini con il prezzo più basso.

Si ipotizza inoltre che il rapporto fra i ranghi delle diverse località non sia fisso. In più si prevede l’organizzazione di una vera e propria gerarchia urbana (città della stessa dimensione possono esercitare funzioni diverse). Non vi è più l’idea che centri di ordine superiore forniscano tutti i servizi a quelli di rango inferiore. Si giunge quindi a queste nuove considerazioni:

  • esistono di centri di eguale dimensione, ma con diversa specializzazione funzionale;

  • esiste la possibilità di specializzazione produttiva per i centri urbani maggiori che non devono per forza ospitare tutte le funzioni.

L’organizzazione dello spazio economico è il risultato della sovrapposizione di una pluralità di re- ticoli esagonali, aventi dimensione e strutture diverse, le quali hanno un centro in comune che produce tutti i tipi di beni.

3 Conclusioni

Ai modelli di Christaller e Lösch viene riconosciuto il pregio di costituire i primi modelli di equilibrio generale in ambito spaziale (omogeneo), nei quali si cerca di spiegare l’esistenza di insiemi di città di diverse dimensioni, il ruolo di ognuna di esse e la distanza che intercorre tra esse. Ma tali modelli hanno anche dei limiti. Come quello di ipotizzare l’esistenza di una domanda che distribuisce uniformemente tutta intorno al centro, anziché una parziale e differenziata concentrazione nello spazio. Un secondo limite è sul fronte dell’offerta dove i modelli sono caratterizzati da costi di produzione sostenuti dall’impresa che sono indipendenti dalla prossimità ad altre imprese. Inoltre sono modelli che hanno una natura statica.

  1. ipotesi semplice (o della natalità), sostenuta da Hoover e Vernon, in cui risultano deter- minanti le economie di localizzazione e di urbanizzazione. Le imprese di piccole dimensioni inizialmente si localizzano nelle località centrali delle aree metropolitane;

  2. ipotesi complessa (o della mobilità), elaborata da Leone e Struyk, per la quale le imprese che sono sorte nell’area centrale, in un periodo successivo tendono ad abbandonare la loro originaria localizzazione e ciò a causa di due fattori: l’aumento dei costi di produzione e la minore necessità di economie esterne. In altre parole, le imprese nascono nell’area centrale e successivamente tendono ad abbandonare la localizzazione iniziale in relazione alla loro presumibile crescita dimensionale.

I filoni di studio che hanno analizzato i fattori che si dimostrano in grado di influenzare la decisione di un imprenditore di dar vita ad una nuova imprese (l’offerta di imprenditorialità) sono alquanto eterogenei e sono:

  • teorie socio-psicologiche (Max Weber);

  • la teoria del mercato del lavoro;

  • la teoria dell’avversione al rischio.

Gli elementi chiave dalla cui intersezione dipende la decisione di formare una nuova impresa sono tre: motivazioni individuali, capacità individuali e opportunità di mercato. Il primo gruppo di elementi (teorie socio-psicologiche) riguarda la motivazione individuale che derivano dalla famiglia di appartenenza del potenziale imprenditore. Il secondo gruppo di ele- menti (teoria del mercato del lavoro) riguarda le caratteristiche dell’organizzazione incubatrice. Il terzo elemento riguarda l’individuazione delle opportunità offerte dal mercato.

Diverse sono le posizioni evidenziate dal dibattito circa il ruolo che la dimensione delle imprese incubatrici svolge nel processo di nascita di nuove imprese e non esistono conclusioni certe. Una prima posizione sottolinea che sono le piccole imprese a costituire la funzione imprenditoriale. Una seconda posizione sottolinea invece che sono le grandi organizzazioni produttive a costituire l’ambito più adatto per lo sviluppo delle capacità imprenditoriali e delle idee innovative. In definitiva, la nascita della nuova impresa risulta fortemente correlata alle caratteristiche economico-produttive dei sistemi locali e tende a rafforzare il processo di crescita di quelli più dinamici, in termini di offerta di fattori d’imprenditorialità, attraverso un meccanismo di tipo cumulativo. Emerge con evidenza che le nuove imprese sorgono con maggiore probabilità in questi contesti territoriali dove sono già presenti almeno alcune imprese, rafforzando così l’iniziale tendenza allo sviluppo economico mediante la formazione di una vera e propria struttura economica.

4 L’innovazione

Si dice innovazione l’introduzione sul mercato di un nuovo prodotto o di un nuovo processo produttivo oppure di un nuovo modello di organizzazione aziendale. Lo scopo dell’innovazione è di produrre oggetti validi dal punto di vista economico-commerciale, per soddisfare le esigenze dei consumatori e trovare quindi uno sbocco sul mercato. Non tutte le invenzioni sono destinate a diventare prodotti di successo sul mercato. Assunti sull’innovazione:

  • il ruolo non necessariamente determinante dell’attività di ricerca;

  • gli sfasamenti temporali che intercorrono tra la produzione delle nuove conoscenze e l’inno- vazione, giacché quest’ultima può realizzarsi anche a distanza di molto tempo dalla prima;

  • la non necessaria coincidenza tra il produttore delle conoscenze (ricercatore) e l’innovatore (imprenditore);

  • l’innovazione è il frutto dell’incontro tra le opportunità tecnologiche e quelle di mercato.

L’innovazione si diffonde all’interno del sistema economico secondo la teoria del "ciclo di vita del prodotto" (elaborata da Vernon), il quale si articola sostanzialmente in quattro fasi:

  1. Introduzione: il prodotto è all’inizio della sua diffusione sul mercato (domanda ridotta);

  2. Crescita: accelerazione del ritmo di espansione della domanda;

  3. Maturità: il prodotto è caratterizzato da un mercato di sostituzione, nel quale gli acquisti sono effettuati più per sostituire lo stesso prodotto che per soddisfare una nuova domanda di mercato;

  4. Declino: la domanda del prodotto subisce una contrazione (prodotto sostituito da altri beni oppure i bisogni dei consumatori sono cambiati). Per introdurre un’innovazione sul mercato sono fondamentali le conoscenze tecnologiche e quelle di mercato, nonché la disponibilità di lavoro qualificato. In questa fase l’impresa innovativa si trova in una posizione monopolistica, a fronte però di una domanda molto limitata e rigida. Nella seconda fase, la diffusione del prodotto sul mercato è il risultato del passaggio a una produzione in serie e il probabile ingresso sul mercato di imprese imitatrici. Nella terza fase, le imprese operanti sul mercato (che nel frattempo sono diventate più numerose) necessitano di fattori che consentono loro di abbattere i costi di produzione e anche il prezzo di mercato. Tali fattori sono costituiti dal lavoro poco qualificato (o di routine) e dagli impianti produttivi di grandi dimensione. Nella fase iniziale d’introduzione del prodotto si assiste a una forte concentrazione, giacché le imprese innovatrici tendono a localizzarsi all’interno delle zone centrali di poche grandi aree metropolitane. Nella fase di crescita aumenta il numero delle imprese localizzate in un’area urbana più vasta. Nella fase di maturità la produzione standardizzata può essere realizzata in impianti localizzati al di fuori delle aree urbane. Riassumendo ci sono tre momenti fondamentali:

  • il primo caratterizzato da una forte polarizzazione, nel centro delle aree metropolitane, dovuta alla nascita delle imprese innovatrici al momento dell’introduzione del nuovo prodotto;

  • il secondo caratterizzato da una relativa diffusione all’interno della corona metropolitana o in altre aree urbane, per effetto della nascita/spostamento delle imprese imitatrici;

  • il terzo caratterizzato dalla dispersione nelle aree periferiche e meno sviluppate della regione per effetto del decentramento degli impianti produttivi.

Secondo l’approccio del ciclo di vita dell’impresa non c’è sempre coincidenza tra la durata e l’anda- mento del ciclo di vita di un prodotto e il corrispondente ciclo di vita dell’impresa che lo produce. Quando un prodotto entra nella fase di maturità, l’impresa produttrice può o innovare sul prodotto stesso o introdurre innovazioni di processo. Tra l’intensità dell’innovazione di prodotto e quella dell’innovazione di processo emerge come il ruolo dell’innovazione di prodotto, sul totale delle in- novazioni, tende a perdere di peso a favore di quella di processo. I fattori che determinano l’adozione di nuove tecnologie da parte di un’impresa sono costituiti da:

  • il soggetto che diffonde l’informazione circa l’esistenza delle nuove conoscenze;

  • le reti di comunicazione a cui si può ricorrere per diffondere presso altre imprese le nuove conoscenze;

  • la sensibilità del soggetto ricevente l’informazione.

Il processo di adozione dell’innovazione tecnologica non termina con l’individuazione della tec- nologia più adatta (appropriabilità), ma dipende anche dal rivelante ruolo svolto dal coordinamento tra le varie attività o funzioni presenti all’interno dell’impresa. Grazie all’articolazione territoriale delle funzioni dell’impresa e alla combinazione sul piano localizzativo dei due cicli di vita (impresa e prodotto), l’impresa può contemporaneamente:

  • produrre a costi ridotti i prodotti maturati;

  • introdurre innovazioni marginali nei prodotti maturati (differenziazione dei modelli);

  • adottare innovazioni di processo più efficienti ed efficaci;

  • introdurre nuovi prodotti attraverso ricerca e sviluppo.

In conclusione, quello che caratterizza il distretto industriale è il fatto che si tratta di un vero e proprio ambiente sociale in cui le relazioni umane presentano un carattere uniforme (come il lavoro, il risparmio e il rischio), tanto da indurre i soggetti operanti nel distretto un vero e proprio senso di appartenenza a un comune contesto sociale e territoriale.

5 Le principali teorie dello sviluppo economico regionale I

La maggior parte delle teorie economiche tende a concepire la regione come una componente terri- toriale di un sistema economico nazionale, che per definizione è aperta, nel senso che intrattiene intensi scambi di vario genere con altre regioni, appartenenti sia allo stesso sistema nazionale sia ad altri sistemi economici.

5 Criteri delle teorie dello sviluppo

Qui sotto vengono riportati in tabella i principali criteri utilizzati nelle teorie dello sviluppo.

Criterio Tipologia Definizione

Natura dello spazio 5. Cause interne Lo sviluppo é causato da fattori endogeni. Cause esterne Lo sviluppo é causato da fattori esogeni.

Cause dello sviluppo Cause interne Lo sviluppo é causato da fattori endogeni. Cause esterne Lo sviluppo é causato da fattori esogeni. Direzione e sbocco del processo di sviluppo

Convergenza Le regioni che inizialmente presen- tano un diverso livello di svilup- po economico, col passare del tem- po tendono a raggiungerne uno più simile. Divergenza Partendo da un livello di sviluppo economico relativamente diversifi- cato, col passare del tempo le re- gioni fanno registrare un aumento delle differenze tra loro esistenti.

Modalità di crescita Crescita equilibrata Lo sviluppo avviene in maniera uniforme. Crescita squilibrata Lo sviluppo avviene in maniera uniforme.

Approccio Prevalentemente dualistico Pluralistico (o multi-regionale)

Interazione tra regioni

Contrapposizione centro-periferia Dominazione di una regione sulle altre Integrazione e cooperazione tra regioni

Sulla base di questa serie di criteri sono stati individuati i due seguenti gruppi di teorie:

  1. il primo gruppo distingue una serie di teorie sulla base del diverso sbocco finale prospettato per il processo di sviluppo, il quale può risultare equilibrato o diseguale (o squilibrato); 5 maggior parte delle teorie attribuiscono allo spazio un ruolo passivo e solo quelle elaborate più recentemente gli attribuiscono un ruolo attivo. Dall’altro punto di vista, emerge che esse si distribuiscono in modo abbastanza più equilibrato fra quelle che sono elaborate in un contesto macroeconomico e quelle in un contesto microeconomico.

  2. il secondo gruppo distingue alcune teorie sulla base del fattore ritenuto la causa fonda- mentale dello sviluppo che può essere esogeno o endogeno rispetto alla regione in esame.

5 I modelli dello sviluppo equilibrato

Sono modelli di tipo microeconomico, fondamentalmente costituiti dal modello neoclassico (a uno e a due settori) e dalle teorie degli stadi di sviluppo (o per tappe). Si possono individuare due distinti approcci:

  • uno più restrittivo, sostenuto dal modello neoclassico, applicato a scala regionale;

  • l’altro meno restrittivo, giacché esso prevede una permanenza per un certo periodo di tempo dei divari nel livello e nel tasso della crescita delle varie regioni.

5 Il modello a un settore

Il modello a un settore è l’applicazione a livello spaziale dei principi che contraddistinguono l’im- postazione neoclassica (le variazioni nelle quantità dei fattori agiscono sui loro prezzi, le variazioni dei prezzi dei fattori influenzano la loro offerta e quindi anche la proporzione in cui si combinano gli stessi fattori ). Il modello neoclassico si articola a seconda del numero di settori produttivi (uno o più di uno) operanti all’interno del sistema economico di ciascuna delle due regioni considerate.

Tale modello adotta le seguenti ipotesi:

  • nella funzione aggregata di produzione la quantità di prodotto ottenuto dipende dalla quan- tità di ciascuno dei fattori produttivi impiegati;

  • la funzione di produzione è formulata in assenza di progresso tecnico.

Si ottiene la seguente espressione, cioè la formula di produzione:

Qt = f (Lt, Kt) (5)

Le principali conclusioni a cui giunge questo modello sono:

  • la produzione cresce all’aumentare dell’offerta dei due fattori produttivi cioè lavoro (L) e capitale (K);

  • il prodotto per addetto

(

Q/L

)

aumenta se aumenta il rapporto

(

K/L

)

;

  • il prodotto per addetto incontra un limite costituito dal fatto che questo rapporto non si espande indefinitamente (rendimenti decrescenti).

Il modello viene reso più realistico dall’introduzione del progresso tecnologico e l’equazione di produzione diventa così: Qt = f (Lt, Kt) + At (5)

dove:

Qt : quantità prodotta Lt : quantità di forza lavoro impiegata Kt : stock di capitale disponibile At : livello di progresso tecnologico

L’introduzione del progresso tecnico rappresenta una causa aggiuntiva della crescita della pro- duzione, indipendentemente dalle quantità impiegate dei due fattori produttivi disponibili. Il modello di crescita neoclassico, in termini di incremento della quantità di prodotto enuncia che:

Q∗ t = αK t∗ + βL∗ t + A∗ t (5)

Nell’equazione sopra le grandezze indicate con l’asterisco rappresentano i tassi di incremento delle variabili considerate, mentre i coefficienti α e β rappresentano il contributo fornito dagli input di capitale e lavoro alla produzione complessiva.

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Economia urbana - RIassunto

Corso: Economia urbana e regionale (57775)

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ANALISI ECONOMICA DEL TERRITORIO