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Riassunto Istituzioni di diritto romano

Corso

Diritto romano

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Anno accademico: 2015/2016
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Università degli Studi di Milano

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DIRITTO ROMANO DELLE PERSONE E DELLA FAMIGLIA

CENNI INTRODUTTIVI

L’attività letteraria di un autore è riferita in termini di appartenenza: l’esempio lampante è l’uso metaforico del termine nascita di un opera per descrivere il risultato letterario dell’attività intellettuale.

Emergono i due significati del verbo edere:

  • attività indirizzata a rendere disponibile un’opera a vantaggio di un pubblico di potenziali lettori (significato più ristretto)
  • nascere (significato più ampio) - (spesso usato nella forma edo in lucem).

La creazione di un’opera è equiparata alla gestazione e alla nascita di un essere vivente. A questa metafora non si può aggiungere quella di maternità, dato che la produzione intellettuale era pressoché totalmente maschile, così di fa riferimento al concetto di paternità letteraria. (esempio Ovidio, ne i Tristia, nel quale il libro parla in prima persona e cita l’autore come padre e gli altri volumi come fratelli).

Figlio ed opera prodotta sono messi sullo stesso piano, concepiti entrambi come creazioni sulla base di un rapporto di derivazione naturale. Sul piano giuridico la disciplina, riguardo a appartenenza, disposizione e tutela giuridica era differente: essendo il libro una res incorporalis ad esso non si potevano applicare le forme giuridiche di tutela o disposizione tipiche delle res corporalis, come ad esempio mancipatio e vindicatio.

La giurisprudenza (Gaio in particolare) elabora il principio litterae chartis cedunt (Gai 2) sulle basi di un principio precedente relativo alla agricoltura e basato sul presupposto che il supporto scrittorio appartenesse all’autore sia che scrivesse autonomamente sia che fosse scritto sotto dettatura. Non si da rilevanza alla scrittura ma all’attività tecnica dello scrivere sia che fosse dell’autore che dello scriba.

CAPITOLO I - L’ORIGINE DEL PRINCIPIO LITTERAE CHARTIS CEDUNT : LA METAFORA AGRICOLA DELLO SCRIVERE

Ritrovamento da parte di Nino Tamassia di un testo, cd indovinello veronese: la traduzione migliore pare essere “il bifolco si preparava i buoi, i prati bianchi arava, e teneva il bianco aratro, e il nero seme seminava”.

Nel 1928 il filologo DeBartholomaeis svela il vero senso del testo: viene paragonata l’attività dello scrivere all’attività dell’aratura e della semina, descrivendo le dita che guidano la penna come buoi, il foglio come campo, la penna come l’aratro e l’inchiostro come la semenza.

Il paragone tra la semina e la scrittura è molto risalente ed è rintracciabile in alcuni termini della lingua latina:  arare (insieme a exarare, inarare, perarare) significa sia arare che scrivere, come si vede in due frammenti dei Comici; uno di Titinio che descrive la tabella littararia come campus cereus da arare, cioè da scrivere e il secondo di Isidoro di Siviglia, nel quale è descritto il campo fatto di cera e lo stilo come un aratro.  versus, la riga intesa come allineamento di lettere e allo stesso modo il solco dell’aratura.  legere per indicare la raccolta dei frutti (Plinio nelle Naturalis Historia). Anche Paolo Diacono paragona la lettura a una perlustrazione di un candido campo solcato da un aratro e il testo scritto come verba exarata)

Nelle istituzioni di Gaio tra i modi di acquisto della proprietà, iure naturali, viene preso in esame l’istituto dell’accessione: nelle varie ipotesi è presa in considerazione quella che qualcuno avesse scritto su un supporto scrittorio altrui, ritenendo che l’inchiostro potesse essere altrui rispetto allo scrivente ma non le litterae che venivano impresse sullo scrittoio.

Vedi Gaio 2 (pag 18)

Per Gaio era sempre il proprietario della carta o della pergamena ad acquisire ciò che altri vi avesse scritto, a prescindere dal valore dell’inchiostro usato dal valore del supporto scrittorio. Principio del cedere delle litterae al supporto scrittorio che corrisponde ad un esigenza concreta: la necessità di poter attribuire la proprietà di un testo a persona diversa dallo scrivente qualora questi non ne fosse l’autore. Se l’autore voleva affermarsi proprietario del testo scritto doveva far si che quello fosse scritto su un papiro o pergamena propria. Lo stesso doveva fare chi voleva fare copie di un testo: assicurarsi che fossero fatte su un supporto di sua proprietà.

Per giustificare questa soluzione Gaio richiama una eadem ratio, espressione di un raccordo logico con cui viene fatto riferimento ad un principio già segnalato individuata la differenza tra la traditio, modo di trasferimento della res nec mancipi e la mancipatio, l’in iure cessio e l’usucapio: nella prima il trasferimento avviene naturali iure nelle altre forme invece civili iure, cioè secondo il ius proprium civium romano rum.

La traditio è poi vista come mezzo mediante il quale si acquista naturali ratione e così vengono accostate ad essa altre figure che sempre naturali ratione permettono l’acquisto di una res.

Si sofferma sull’occupazione, sugli acquisti descrivibili come incrementi fluviali e infine sull’accessione:

  • inedificatio: fondamento dell’acquisto iure naturali è il principio superficies solo cedit
  • implantatio e satio, si fa riferimento allo stesso principio, con la precisazione che chi perdeva la proprietà della cosa accessoria poteva opporre l’exceptio doli mali al proprietario del fondo che chiedeva la restituzione della cosa principale.

Viene poi analizzato il caso della scrittura, l’accessione in questo caso avviene a vantaggio del proprietario del supporto scrittorio: con l’espressione eadem ration probandum est si mira a far rientrare nel caso dell’inedificatio, si equipara la carta al suolo, le litterae al seme o ai suoi frutti; come nella semina il proprietario del fondo acquista, naturali ratione, il chicco e il frutto derivato, così il proprietario del foglio acquisisce la proprietà del testo scritto, non naturali ratione ma in virtù dell’analogia che consente l’estensione dell’effetto acquisitivo ad un caso che non si verifica secondo natura ma riconducibile all’attività umana. La scrittura viene ricondotta all’effetto acquisitivo che connota le altre figure.

La conferma si ha anche nelle Res Cottidiane, sempre di Gaio, dove si accosta la scrittura ad una serie di ipotesi in cui il principio superficies solo cedit trova applicazione.

Il richiamo di tale principio anche per la scrittura non è però comunemente condiviso, infatti nel diritto classico non ci sono altre testimonianze. Sono solo due i passi in cui la questione è affrontata sul piano della casistica:

  • Ulpiano: riporta una considerazione di Giuliano relativa alla legittimazione attiva i riferimento all’esperibilità dell’actio as exibendum di scritture contabili fatte predisporre su carta altrui.
  • Paolo: conferma l’applicabilità dell’istituto dell’accessione anche per l’ipotesi della pictura, riconoscendo l’acquisto a vantaggio del proprietario della tabula. In nessuno dei due casi, nonostante sia riconosciuta l’accessione, viene richiamato il principio formulato da Gaio, anzi addirittura Paolo propone come giustificazione che è necessario che ceda a lui quella cosa poiché senza quella non può essere (necesse est rei cedi.. 29). La

di tabula picta, in cui il fenomeno de cedere si realizza a vantaggio dell’autore poiché secondo alcuni avviene una specificazione e non un accessione.

Gaio si limita ad analizzare chi scrive, che non sempre è l’autore: può anche essere semplicemente uno scriba. Questa prospettiva è spesso sfuggita agli interpreti del passo di Gaio che non hanno considerato che una diversa interpretazione può far superare l’antinomia tra la regolamentazione della scrittura e quella della pittura.

Gli esempi di scrittura sotto dettatura sono moltissimi: Cicerone, Ovidio, Galba, Giulio Cersare, Plinio; Quintiliano invece se ne dichiara estraneo e indica i motivi per i quali preferisce scrivere (coincidenza tra tempi di riflessione e quelli dello scrivere, maggiore concentrazione assicurata dall’isolamento ecc...).

L’autore, nell’esempio delle istituzioni di Gaio, fa scrivere ciò che detta sulla sua carata per poi averne la disponibilità come proprietario, in base al principio litterae chartis cedunt. L’estensore materiale del testo non può vantare nessun diritto rispetto ad esso; così si garantisce la proprietà all’autore.

L’esempio si estende anche ad altre fattispecie, non solo autore-scriba ma anche riproduzione di opere di terzi da parte del proprietario delle stesse. In questo caso il principio gaiano si applica per tutelare il diritto di proprietà del cliente dell’amanuense sulla copia creata da questo su un supporto fornito dal cliente.

Nel caso in cui chi scriveva era un sottoposto non c’erano aspetti rilevanti dal punto di vista giuridico poiché un sottoposto non poteva acquisire alcuna proprietà. Se era invece un soggetto libero, sui iuris. Nell’eventuale processo colui che scrive è nella condizione di convenuto e per resistere deve proporre l’exceptio doli: non deve aver ricevutole impensae scripturae, il compenso per l’allestimento dell’atto scritto, per la prestazione di scriba e pure il risarcimento per i materiali utilizzati, come l’inchiostro.

L’interesse economico dello scriba libero è quindi tutelato tramite exceptio. E’ sottolineato da scritti di Cornelio Nepote e di Marziale. Lo stesso Diocleziano nel III sec dC disciplina con l’Edictum de pretiis il mestiere di scrittori: attività remunerata, che poteva essere oggetto di locazione (locatio operis o operarum).

Nell’esempio di Gaio invece l’analisi del caso prescinde da un’ipotesi di rapporto contrattuale, mai si parla di locator o conductor. Si fa riferimento a questa figura e a un rapporto contrattuale tra scriba e autore nella casistica relativa alla ripartizione del rischio contrattuale, anche se non si parla di scriba ma di exceptor. La fattispecie è più ampia e si inserisce nel problema della trasmissione del rapporto di locazione all’erede: esso è obbligato a rispettare le obbligazioni assunte dal de cuius.

In definitiva il rapporto obbligatorio tra scriba e autore è inquadrato nel contratto di locatio operis e sottostà alla regolamentazione dello stesso.

CAPITOLO III - L’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO LITTERAE CHARTIS CEDUNT

NELL’INTERPRETAZIONE ROMANISTICA

La riflessione sul rapporto scrittura carta rimane valida fino alla compilazione giustinianea. Nella giurisprudenza si possono inoltre trovare pareri contrastanti per quanto riguarda invece il caso della pittura: per alcuni (Gaio) non si comprende perché la proprietà del tutto viene

attribuita al pittore. Per Paolo invece c’è una totale equiparazione tra il caso della pittura e quello della scrittura.

Nel caso della scrittura, comunque, si vuol tutelare l’autore attraverso l’espediente della proprietà della carta su cui si scriveva, per dare rilievo all’elemento immateriale costituito dal pensiero, che diveniva tangibile nella carta mediante la scrittura, con la conseguenza che l’autore può vantare diritti e utilizzare mezzi giuridici per disporre della sua opera.

Anche nel caso di contratto di locazione il principio litterae cedunt chartis era prevalente, quindi sempre il conductor doveva utilizzare un supporto scrittorio del cliente.

Nel XII sec inizia a cambiare il quadro, rimasto statico fino ad allora a causa della staticità delle tecniche scrittorie e della diffusione libraria. Nascono e si diffondono scuole di diritto, le pubblicazioni scolastiche iniziano a divulgare, a causa delle esigenze dei sempre più numerosi allievi.

Le fonti rimangono invariate, la figura dell’accessione non varia, varia l’interpretazione sugli elementi di essa in relazione alla definizione della figura di cosa principale e di cosa accessoria. Ora si da maggiore peso alla scrittura, viene ritenuta prevalente, attrae la carta determinando l’acquisto dell’intero in capo allo scriptor, non più sempre in capo al proprietario del supporto. La nuova interpretazione tutela lo scriptor, valutando in maniera differente gli elementi dell’accessione. Il punto di partenza di questo ragionamento è l’interpretazione delle fonti classiche relativa alla pittura e alla maggiore preziosità della pittura rispetto al supporto, l’opera dell’artisti prevale sul supporto, la cosa principale attrae quella di minor valore. Ora la scrittura ha raggiunto livelli di qualità elevata tale da essere paragonata alla pittura: colui che scriveva acquistava la proprietà del tutto.

Questa posizione corrisponde ad un orientamento di interessi collegato all’emergere dell’attività scrittoria editoriale a livello imprenditoriale conseguente all’incremento della produzione libraria. Bisognava infatti rispondere all’esigenza di disporre di un adeguato numero di copie di opere classiche e assicurare profitti a chi provvedeva alla scrittura di libri destinati all’insegnamento o all’esercizio delle professioni.

Il fatto che la scrittura diventi cosa principale e la carta cosa accessoria permette ai giuristi di superare le incertezze che avevano incontrato nel considerare oggetto di diritto il pensiero reso sotto forma di scrittura: si ha una nuova visione economica della rilevanza acquisita dall’exemplatur che è di per se una res corporalis. Prima l’idea si concretizzava tramite la carta, ora la scrittura assorbe la carta e si sostanzia nell’exemplar.

In questo modo era difficile dare tutela all’autore se aveva dato forma al suo pensiero dettandolo o ci fosse stata una copiatura da parte di terzi di exemplaria. In tutti questi casi maggiore rilievo era dato agli scriptores che anche se avessero realizzato la copia su carta dell’autore o del proprietario degli exemplaria, avrebbero acquistato la proprietà dei testi in quanto ora la scrittura è diventata prevalente sulla carta. Ora non ci si preoccupa di tutelare l’autore ma l’editore.

Gli scriptores concludono contratti con gli studenti: da qui la necessità di utilizzare un sistema di co-edizione, in base al quale committente ed editore convengono su una attività editoriale comune e stabiliscono una divisione degli utili e delle perdite non necessariamente in parti uguali. Il locatore forniva una o più copie dell’exemplar al committente che effettuava il pagamento delle mercedes scripturae. Il rischio del locator era non vedersi consegnato il compenso; per tutelarlo, siccome non poteva più utilizzare l’exceptio doli, viene creata la questio de scriptore, con la possibilità di ritenere la cosa nel caso in cui non fosse stato pagato il debito.

è in linea con le fonti romane, ma semplicemente si recupera una posizione materialistica, contro un visione di tutela della cosa scritta di Azzone e Odofredo. Per Bartolo la differenza tra scrittura e pittura sta nel fatto che la prima non occupa tutta la carta, mentre la seconda occupa tutta la tavola: non è un ragionamento con basi giuridiche. Successivamente c’è uno sviluppo dell’analisi della questio de scriptore, richiamando la disciplina sull’accessione delle litterae: si focalizza sul diritto di retentio , ma svolge un ragionamento contraddittorio. Identifica la scrittura su foglio altrui come accessione ma vuole salvaguardare l’attività degli amanuensi. Il ragionamento è: la carta attrae la scrittura, il proprietario della carta è proprietario del tutto quindi può rivendicarlo. La retentio non deriva dal contratto di scrittura, come teorizzavano i classici, ma è collegata all’accessione. Il diritto di ritenzione del copista non si estende all’esemplare che gli era stato consegnato.

Anni dopo Baldo riprende l’insegnamento di Bartolo affermando che la parte minore cede alla parte maggiore indicando nei vari casi cosa si deve intendere per parte maggiore o minore. In via sussidiaria richiamava il principio del maggiore valore per il quale la cosa meno preziosa accedeva all’altra. Si nota un disinteresse per la questio de scriptore, non distingue nemmeno il caso dell’esemplare originale.

Sulla questio de scriptore si sofferma il fratello Angelo degli Ubaldi distinguendo tra il manoscritto originale e le copie fatte dagli amanuensi, le uniche sulle quali era possibile esercitare il diritto di ritenzione: la retentio è una sorta di garanzia reale dell’obbligazione senza che traspaia l’atto costitutivo o la volontà dell’obbligato. L’analisi che fanno i commentatori si muove su piani di logica pratica in cui il richiamo alle fonti romane è sostanzialmente evanescente e conduce a conclusioni che non hanno nulla a che vedere con la logica dei giuristi romani.

L’interpretazione del principio gaiano si era evoluta con Azzone e Odofredo, intendendo la scrittura al pari della pittura e sancendo che la scrittura era cosa principale che attraeva il supporto scrittorio.

La successiva interpretazione giurisprudenziale, Umanisti e Giusnaturalisti, si mantiene sulla scia di Azzone e Odofredo, spostando l’attenzione sul mezzo acquisitivo, che poteva essere l’accessione, la specificazione o la communio, non sempre con la creazione di una logica di sistema. L’unico dato sicura è la prova a rendere indipendente il pensiero dalla materialità del supporto scrittorio o quantomeno prevalente, per arrivare alla tutela dell’opera dell’ingegno. In questo momento storico, inoltre, si ha l’invenzione della stampa, con una conseguente marginalizzazione della figura dell’amanuense e della tecnica di riproduzione del singolo testo. Si rivoluziona il rapporto autore-scriptor il rapporto littera-scriptura e anche la questio de scriptore.

Il punto che metteva in caso il meccanismo precedente era il fatto che il sistema della stampa aveva un procedimento distinto in due fasi: trasformazione dell’originale nei singoli caratteri e poi produzione dei singoli fogli che sarebbero poi stati rilegati. Il prodotto non era più un libro ma uno strumento tecnico, non si utilizzava piu la carta ma il legno e il piombo: non c’erano più gli elementi sui quali si era incentrata la precedente discussione giuridica dal giurista romano in poi.

Era impegnato un imprenditore stampatore che procedeva ad operazioni tecniche senza l’aiuto dell’autore e senza la necessità del manoscritto originale’imprenditore era proprietario dell’impianto e dei manoscritti che metteva sul mercato.

Da questo momento si cerca di dare valore al contenuto dello scritto in cui si esprime la peculiarità del pensiero; pere rilevanza anche il caso della scrittura per riproduzione o per dettatura, come perde rilevanza la questio de scriptore. La scrittura su foglio altrui può essere solo ricondotta all’autore ch in casi marginali scrive su un foglio non suo, con la tutela data dalla maggiore importanza del valore dell’opera o della prevalenza della scrittura sulla carta.

I nuovi problemi sorgono nel rapporto autore-editore e sono di natura obbligatoria. Si usano le tradizionali forme di locatio operis o locatio operarum.

In ogni caso i giuristi prescindono dalle problematiche delle nuove tecniche di stampa e proseguono apparentemente sulla falsariga della dottrina precedente, anche se si nota la volontà di separare il contenuto dell’opera e uno sforzo per individuarne i mezzi di tutela.

  • Zasio: commenta il de rei vindicaitione;l’acquisto della proprietà anche per la scrittura viene ricondotto alle ipotesi di specificazione e descritto nei termini di trahere a se
  • Donello: dedica alla scrittura una trattazione articolata su due punti; interessa l’atteggiamento relativa al cedere in riferimento alla lettere. Viene giustificata la regola litterae chartis cedunt indicando la superiorità della carta senza la quale le lettere non possono essere tracciate (compara la carta al suolo sul quale si semina). Con un ambito di applicazione più limitato rispetto al suolo, poiché non si può verificare il caso che sia il proprietario della carta a determinare, usandola, l’acquisizione del materiale altrui come avviene col suolo. Chi scrive lo fa sempre con litterae, che sempre e in ogni caso gli appartengono.
  • Vinnio: ritiene che sia necessario assicurare anche alla pittura una regolamentazione analoga a quella della scrittura; riprende la soluzione di Paolo. In ogni caso Vinnio ricorda la regolamentazione della scrittura attestata nelle fonti e ne sottolinea il suo superamento riportando in sintesi una riflessione di Hotomanus: non sarebbe giusto secondo l’autore che chi ha scritto su carta altrui i propri pensieri rischi di perdere il proprio scritto a vantaggio del proprietario della carta (la scrittura non è solo un segno grafico ma è uno strumento espressivo di contenuto che qualifica il testo); viene quindi affermato come il principio litterae chartis cedunt viene superato, non perché gli scriptores sono paragonati ai pittori, ma perché risulterebbe di maggiore valore lo scritto, inteso come contenuto, rispetto al supporto scrittorio.
  • Heineccius: armonizza le soluzioni in tema di scrittura e di tabula picta. Distingue tre tipi di accessione (naturale, industriale e mista) e delinea la scrittura come caso di accessione industriale. Applica alla scrittura la regolamentazione della pittura. Per la prima volta però viene preso in considerazione il valore del contenuto dello scritto. L’opera di un autore di grande dottrina trae a se la proprietà del supporto scrittorio, come avviene per le rappresentazioni figurative di famosi pittori, sempre che il contenuto non si esaurisca in cose di poco conto.
  • Pufendorf: giusnaturalista, ritiene il caso della scrittura non come semplice accessione, le cui conseguenze in termini di acquisto non ritiene condivisibili, poiché sfavorevoli allo scrittore autore a vantaggio del proprietario della carta. Si avvicina di più al caso della specificazione, favorevole a chi fa di un semplice supporto scrittorio un libro o un epistola. Questo è uno stadio di tutela del contenuto più avanzato, comincia a emergere il valore giuridico del bene immateriale, il valore del pensiero dell’autore. Fino a che è incontaminata la carta mantiene la sua originaria natura, una volta che lo scritto è stato impresso essa acquista un nome diverso in base al contenuto
  • Wolff: riporta tutte le figura allo schema giuridico della communio; comproprietà sia nella scrittura che nella pittura, con titolarità di un dominium sia sul piano formale che su quello sostanziale.
  • Voet: segue ancora la figura dell’accessione, di stampo romanistico, con principio del maggiore o minore prezzo con valore residuale. Ripropone poi la partizione di sistema tra accessione naturale industriale e mista collocando la scrittura nella categoria intermedia, considerando

2.

Ci si è chiesti se anche nell’antichità esisteva una forma simile al diritto di autore. Si è voluto individuare le singole facoltà in cui può concretizzarsi l’esercizio di tale diritto per vedere se ci fosse un analoga tutela anche nel diritto romano.

In questo contesto spicca l’opera di Vittorio Scajola, che chiamato a partecipare alla regolamentazione internazionale del diritto di autore giustifica sul piano storico l’introduzione di nuove disposizioni più favorevoli agli autori. Il diritto romano è preso come riferimento per le nuove scelte legislative; per Scajola non escludeva come altri l’esistenza di qualche forma di diritto d’autore in Roma antica, ma ammetteva l’assenza di una sua tutela sotto il profilo economico. Richiamandosi a Jhering, sosteneva che il cosiddetto diritto morale doveva essere riconosciuto e tutelato. Veniva così offerto un fondamento storico al riconoscimento internazionale di tale diritto.

Si parte dalla distinzione tra aspetto personale e aspetto economico. L’interpretazione romanistica si è espressa favorevole all’esistenza di una tutela della personalità intellettuale, partendo dal concetto di diritto morale, mentre è risultata più cauta nel riconoscimento del diritto patrimoniale allo sfruttamento dell’opera.

Per alcuni, però, la cultura romana non ha mai conosciuto il diritto d’autore. I sostenitori di questa tesi mettono in risalto 3 aspetti:

  • il silenzio della legislazione romana sulla regolamentazione di tale diritto: argomento utilizzato da Caillemer, ma insufficiente per sostenere l’esistenza del diritto.
  • la presunta inconciliabilità di tutela del’autore con gli aspetti economici della produzione libraria: punto di forza sta nel fatto che prima dell’introduzione della riproduzione a stampa le difficoltà e i costi per la produzione di copie da commercializzare non avrebbere reso possibile il sorgere di un interesse economico da tutelare facente capo all’autore. In realtà studi hanno dimostrato come gli amanuensi fossero ben organizzati e avessero dato vita a un mercato con dimensioni non indifferenti. Inoltre ciò non può incidere sul riconoscimento di quello che viene indicato come il contenuto personale del diritto d’autore, cioè il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi ad ogni sua alterazione, indipendentemente dall’esistenza di diritti economici.
  • la pretesa impossibilità di riconoscere tutela a un bene immateriale quale sarebbe l’opera dell’ingegno: secondo alcuni a Roma non era riconosciuta la proprietà su res incorporales , come ad esempio il pensiero di un autore. Impossibilità di ricondurre a tale concetto il diritto stesso di proprietà, sempre identificato con la res. Il patrimonio di una persona era composto da cose non da diritti? (rivedi pag 107). Il diritto di autore inoltre non poteva essere ricondotto alla categoria delle res incorporales. Infatti per gaio le res incorporales non corrispondono ai diritti ma sono quelle che trovano il loro fondamento nel diritto nel senso che è l’ordinamento giuridico a determinarne una rilevanza obiettiva.

In ogni caso molti dubbi sono relativi a questa tesi: ad esempio Manzoni critica la sistematica del diritto di autore e non il suo riconoscimento. Quindi non c’è certezza che il diritto romano non abbia delineato una configurazione e regolamentazione della tutela degli autori.

Alti riconoscono anche per Roma l’esistenza di un diritto di autore mettendone in luce innanzitutto il contenuto economico e facendo riferimento alle categorie moderne del diritto di

riproduzione e del diritto di rappresentazione. Tuttavia le argomentazioni a sostegno sono molto fragili.

  • Grysar: sosteneva che l’autore del testo teatrale avrebbe ricevuto dai ludorum curatores finchè era in vita un compenso ad ogni rappresentazione, teoria poi smentita da studi successivi, di Ritschl che sosteneva come l’esempio preso da Grysar fosse eccezionale. Lo stesso afferma Kohler.
  • Breulier: desume l’esistenza di un diritto esclusivo dell’autore alla riproduzione dell’opera dalla titolarità del diritto di proprietà dell’autore su un manoscritto non ancora pubblicato. Argomentazione anche questa che non sta in piedi. Si confonde la proprietà del manoscritto prima della pubblicazione con il diritto esclusivo di riproduzione dopo la pubblicazione.
  • Ancillon de Jouy: presupponeva che il pretore basandosi sull’equità accordasse all’autore se pubblicava in prima persona un actium in factum per sanzionare la produzione di copie contraffate.
  • Haenny, si dichiara favorevole al riconoscimento di un diritto d’autore, ma ammette la completa libertà di riproduzione dello stesso da parte di tutti. Il diritto avrebbe avuto ad oggetto solo la paternità del testo, cioè dietro un compenso l’autore avrebbe potuto alienare anche la paternità dello scritto. Tuttavia questa possibilità non era prevista come cessione di un diritto, poiché l’accordo si svolgeva su un piano di fatto e non determinava una fattispecie giuridica. Quindi è consequenziale che manchi alla fattispecie una regolamentazione giuridica.
  • Fadda: alto prezzo dei volumi che includeva il diritto esclusivo alla divulgazione. In realtà il valore era determinato dalla qualità e dal fatto che fosse o meno inedito.
  • Kohler: nega la configurabilità di una proprietà intellettuale affermando che il creatore dell’opera letteraria era titolare di un diritto di proprietà sul valore economico del testo. Un diritto di proprietà però sui generis. Inoltre l’Autore non poteva distinguere un diritto di proprietà su un manoscritto, prodotto materiale, frutto di creazione intellettuale e un diritto dell’autore sul valore economico dell’opera, concepita come bene incorporale. In questo modo però si tutelavano solo gli interessi economici dell’autore e non quelli dell’editore, considerando che chiunque fosse in possesso di un opera avrebbe potuto riprodurla. Veniva escluso un diritto sul contenuto del testo, non faceva capo all’autore e non poteva essere trasferito all’editore, con la vendita del manoscritto.
  • Birt: l’autore cede il manoscritto e partecipa agli utili di vendita delle copie della propria opera

Per quanto riguarda le opere teatrali sono riscontrabili peculiarità: recentemente si è tornati a ricercare le prime attestazioni del diritto d’autore nell’esperienza romana riguardo al diritto alla rappresentazione. Una vendita di una commedia significava una rappresentazione

Maggiormente diffusa è stata la teoria che riconosceva l’esistenza già per l’epoca romana. Gran parte della dottrina che si definiva contraria ha infatti ammesso l’operatività di un diritto d’autore a contenuto personale, ossia di un diritto morale.

  • Jherig sosteneva che il diritto d’autore avrebbe avuto riconoscimento tramite la actio iniuriarum aestimatoria. Il diritto sarebbe inquadrabile come una forma di proprietà su una cosa incorporale, ossia come proprietà intellettuale. La lesione di un tale diritto poteva essere inquadrata sia nell’ambito dell’actio negatoria (per il futuro) sia in quello dell’actio iniuriarum (per il passato). In tale caso non si tutelava la personalità in quanto tale, ma la personalità in riferimento ai rapporti giuridici concreti, ossia la personalità esplicantesi nell’ambito della proprietà.

  • Fadda: esperibilità dell’actio iniuriarum a tutela dell’autore accostando l’ipotesi della pubblicazione non autorizzata all’illecita rivelazione di disposizioni testamentarie. A tal fine

CAPITOLO V - LA COMMERCIALIZZAZIONE DELL’OPERA TEATRALE

1.

Prima distinzione tra i vari generi compositivi:

  • testi destinati alla rappresentazione: scritti essenzialmente per la messa in scena, finalità cui non era funzionale la diffusione come testi scritti. Centrali i rapporti tra autore, impresario teatrale e organizzatori degli spettacoli.
  • testi destinati alla lettura: direttamente rivolti ai singoli fruitori, prevista la diffusione tramite impegno editoriale, centrale il rapporto autore-editore.

Questa constatazione mostra il limite dell’opinione diffusa per cui si ricollega l’assenza del diritto d’autore alla mancanza di un effettivo interesse economico alla tutela dell’opera dell’ingegno. Infatti l’utilità economica di un’ opera letteraria non si limitava alla possibilità di riprodurre un testo in più esemplari ma poteva attuarsi anche attraverso altre forme, come la riproduzione teatrale.

La produzione teatrale ha preceduto lo sviluppo degli altri generi letterari strettamente legati alla pratica della lettura, di cui ci restino utili testimonianze.

I Comici sono la fonte più risalente, in particolare Terenzio; le informazioni vanno valutate col fatto che l’originaria coincidenza delle figure attore-autore stava venendo meno e così il testo scritto andava acquisendo un valore autonomo rispetto alla rappresentazione.

Normalmente le rappresentazioni erano pubbliche e gratuite, durante i ludi publici venivano offerte dagli edili: erano così di solito coinvolti 3 soggetti: autore, attore ed edili. Gli edili accoglievano nei ludi solo commedie nuove, non rappresentate e quindi il valore economico dell’opera si esauriva con la prima rappresentazione. L’interesse economico dell’autore si esauriva con la vendita del manoscritto mentre quello del capocomico-attore si esauriva con il compenso per la rappresentazione, l’interesse degli edili si concretizzava con il successo dello spettacolo.

Per Grysar invece l’autore riceveva un compenso per ogni rappresentazione, ma in realtà è stato dimostrato che l’episodio della rappresentazione a cui fa riferimento risultava del tutto eccezionale, a causa del grande successo dell’opera. Per Svetonio addirittura il nuovo compenso non era dato all’autore, ma a chi proponeva agli edili la messa in scena del pezzo curandone poi l’esecuzione. Solo in questa vesta l’autore poteva essere remunerato dagli edili e non in quanto titolare di un diritto quale autore del testo.

Molte indicazioni si trovano nei due prologhi dell’Hecyra di Terenzio, commedia che fu rappresentata più volte con difficoltà.

Il primo prologo non apparteneva al testo originario della commedia, che per alcuni fu rappresentata per la prima volta senza prologo, ma fu composto solo per il secondo tentativo di rappresentazione, poiché la prima fu interrotta per l’intervenuta distrazione del pubblico.

Il secondo prologo è più articolato; parla il capocomico Ambivio Turpione che si presenta ricordando le sue benemerenze nei confronti del teatro di Cecilio a cui aveva assicurato il successo. Con lo stesso impegno il capocomico assicura di voler ribaltare le sorti dell’Hecyra, che ricorda di aver inutilmente tentato di rappresentare in due occasioni, nelle quali poi era stato

interrotto (da dei pugili e poi da un funambolo e infine da dei gladiatori). Il capocomico esorta il pubblico affinché lo aiuti a far si che l’arte teatrale non perda la sua popolarità chiarendo come non sia stato il guadagno a spingerlo sulla scena, ma il desiderio di rispondere agli interessi del pubblico. Conclude dicendo che gli autori scriveranno altre commedie e lui le acquisterà solo se ci sarà pubblico che le guarderà.

Da questi prologhi si possono estrapolare alcune notizie; innanzitutto bisogna individuare quali fossero gli atti negoziali che avevano ad oggetto un testo drammaturgico e la sua rappresentazione e quali fossero i soggetti che potevano rimanere coinvolti:

  • Nel primo prologo sembra che l’autore venda l’opera al capocomico. In realtà dopo che la prima commedia non è stata rappresentata può disporre nuovamente della commedia come nuova: non c’è quindi un vero e proprio acquisto da parte del capocomico. Per Donato il capocomico interviene nella contrattazione tra edili e autore indicando il valore della commedia. Per Rischl il capocomico sarebbe anche responsabile per il prezzo pagato all’autore in caso di insuccesso della rappresentazione, dovendo versare una cauzione agli edili.
  • Beare fa invece riferimento all’acquisto di un testo direttamente da parte del capocomico, che secondo lui dopo il primo insuccesso nella rappresentazione avrebbe rimesso il testo a disposizione dell’autore per i rapporti di amicizia che li legavano; ricostruzione non fondata e sganciata da fonti storiche.
  • Manfredini: quella degli edili era una locazione d’opera avente ad oggetto una rappresentazione, una fabula acta, ma ciò non chiarisce come una volta venduto il testo l’autore potesse avere ancora pretese e poteri decisionali.

La soluzione sembra ritrovarsi ne fatto che il primo atto negoziale (con gli edili) era una locazione con cui l’autore disponeva della propria commedia portandola in scena dietro compenso; interrotta la rappresentazione e rimasta nuova la commedia l’autore poteva riproporla per i ludi scenici, ma sceglie una via diversa e decide di riproporla al capocomico: è una vera e propria vendita, oggetto è una res che il capocomico acquista pagando un pretium per poter allestire la fabula e portarla sulla scena.

4.

I due prologhi fanno riferimento a due interruzioni diverse: uno spettacolo di pugili prima e un funambolo poi. Nel primo caso l’autore decide di non ripresentare la commedia, nel secondo il capocomico decide e sceglie di ripresentarla continuando però ad avere insuccesso poiché il pubblico è distratto dai gladiatori. Tra il primo e il secondo episodio si è verificato l’acquisto del testo da parte del capocomico che risulta il contraente con gli edili in riferimento a quella che è la prima rappresentazione del testo.

In definitiva, comunque, 3 sono le interruzioni , ma due i tentativi non riusciti di metterle in scena: esercizi di un funambolo, spettacoli dei pugili e poi gladiatori. La vendita interviene solo in seconda battuta; dopo 5 anni l’autore decide di vendere il testo e non di riproporlo una seconda volta.

L’accoglimento della rappresentazione nei ludi scenici da parte degli edili non presupponeva un acquisto ma si strutturava come prestazione di un facere dietro compenso, inquadrabile nello schema della locazione. L’unico acquisto era quello che vedeva come venditor il l’autore e come emptor il capocomico.

Attico disponeva di manodopera specializzata in grado di confezionare un volumen seguendone tutte le fasi dell’allestimento, permettendo una rapida diffusione dell’opera. Non si sa con certezza l’entità e i tempi delle singole edizioni, si sa in via indiretta seguendo le vicende editoriali di una serie di opere inviate da Cicerone ad Attico ed oggetto di successivi interventi di correzione, come il De Republica che ci è stato tramandato con un errore nonostante Cicerone avesse chiesto ad Attico la correzione: significa che in breve tempo era stata diffusa un tiratura dell’opera con l’errore. Lo stesso succede qualche anno più tardi con il pro Ligario, nel quale Cicerone si accorge di citare un soggetto che in realtà era morto: nonostante la segnalazione dell’errore l’opera viene pubblicata errata. Tutto ciò conferma l’efficienza del sistema editoriale come era stato confermato antecedentemente con un epistola dello stesso cicerone destinata ad Attico, nella quale sottolineava il suo ruolo fondamentale per il successo dell’orazione.

Usa il termine vendere per descrivere la sua attività; lo stesso Cicerone sottolinea la possibilità di comprare dei libri da Attico, come aveva fatto una volta. Cicerone paga il libro ad Attico e riconosce il ruolo dell’amico diverso da chi si occupa normalmente della commercializzazione delle opere letterarie. Nel far ciò accenna anche agli aspetti patrimoniali della vicenda.

Il ruolo di attico emerge anche da un’altra prospettiva: correttore del manoscritto e editore che tratteneva un ingente numero di copie già commissionate e non ancora distribuite. Ma se l’acquisto risultava antecedente rispetto all’allestimento è possibile ipotizzare che questo si fosse concretizzato nell’acquisto della carta su cui poi la copia sarebbe stata riprodotta secondo la regola giuridica dell’accessione.

Necessario anche capire i rapporti autore-editore. Per un’ opera già edita non era necessario il consenso dell’autore, dichiarazione di volontà invece necessaria nel caso in cui si procedesse all’edizione di un’opera inedita?

Esempio sono le richieste di Cicerone ad Attico del 45, perché pubblichi a sua volta un’opera di Irzio che egli riteneva idonea a dargli lustro. In un'altra occasione è data giustificazione della facoltà di Attico di far circolare un libro, per il solo fatto che gli sia stato consegnato prescindendo da un’esplicita volontà dell’autore, libro da cui si può trarre copia avendo semplicemente la disponibilità del manoscritto, senza la necessaria autorizzazione dell’autore.

Per quanto riguarda invece i manoscritti inediti prendiamo ad esempio in considerazione il de Finibus, inviata da Cicerone ad Attico nel 45. Cicerone in seguito si lamenta del fatto che questa fosse entrata in circolazione senza il suo consenso a causa di alcune copie fatte da Balbo e per giunta con alcuni errori e prima che fosse donata a Bruto, suo destinatario. Questo proverebbe che era necessario il consenso dell’autore per l’opera inedita.

Successivamente però Cicerone sembra assolvere Attico, comunicandogli di assumersi le colpe per non aver esplicitamente richiesto di non voler la pubblicazione immediata del testo.

Per le altre opere infatti Cicerone chiarisce immediatamente l’utilizzazione che vuole ne venga fatta; così per il De gloria per il quale ne esclude per il momento la pubblicazione e per il quale chiede ad Attico di radunare un selezionato pubblico per la lettura o per la seconda filippica che invece può, a discrezione dell’editore, venire immediatamente pubblicata.

Quindi così come non era necessario il consenso dell’autore per la pubblicazione di opere inedite o già edite, allo stesso modo l’editore che avesse ricevuto un manoscritto non era vincolato alla pubblicazione. La possibilità di pubblicazione era valutabile esclusivamente dall’editore.

2.

A volte c’erano comportamenti scorretti degli editori, che sottraevano il manoscritto non ancora terminato all’autore e procedevano illegittimamente all’edizione, forti del fatto che le regole sull’accessione permettevano la possibilità di disporre del testo al possessore del manoscritto. Esemplificativa è una testimonianza di Diodoro Siculo, che sostiene la sottrazione indebita e la pubblicazione non autorizzata di suoi manoscritti ancora da correggere. Diodoro qualifica la sottrazione come furtiva, quindi a seguito del compimento di un illecito e inoltre indica che la pubblicazione non è stata assistita da una sua approvazione del testo. L’unica possibilità per l’autore era citare espressamente i libri sottratti e privare di autenticità quelli che non approvava affinché non nuocessero all’intero corpo della storia.

E’ confermata quindi l’assenza di un rimedio efficace a tutela dell’autore rispetto alla diffusione illegittima di un testo. Esempi sia di pubblicazione di testi per i quali l’autore era comunque interessato alla diffusione, sia invece di testi per i quali l’autore era assolutamente contrario alla diffusione.

Punto di partenza è una lettera di Cicerone ad Attico: Cicerone aveva cercato di bloccare la circolazione dell’orazione In Clodium et Curionem senza riuscirci, poiché l’orazione una volta pronunciata diventa pubblica e chi ne raccoglie il testo è poi in grado di farla circolare. Cicerone nonostante fosse autore del testo non poteva impedirne la circolazione; il rimedio era allora insinuare nei lettori il dubbio che Cicerone fosse veramente autore di quell’orazione.

Altre pubblicazioni contro la volontà dell’autore sono quelle dell’Eneide di Virgilio o delle Metamorfosi di Ovidio, le quali sono state pubblicate non accuratamente revisionate e per questo motivo Ovidio chiede al lettore di trascrivere alcuni versi sul frontespizio dell’opera, con i quali si scusava per la mancata revisione.

Alcuni decenni dopo anche Quintiliano costata la circolazione non autorizzata di alcune sue opere, in particolare alcune orazioni. Circolavano inoltre anche alcuni testi contenenti parte dei temi poi ripresi nelle istituzioni oratorie, sulla base di appunti presi dagli studenti durante le lezioni orali era possibile impedire questa circolazione, si poteva soltanto affrettare la pubblicazione dell’intera opera rivista e corretta nel miglior modo possibile, ciò emerge dall’epistola diretta a Trifone. Quindi non solo l’opera poteva essere pubblicata senza il consenso dell’autore, ma anche l’opera divulgata oralmente poteva essere appuntata, riprodotta e diffusa come testo scritto da uditori non autorizzati a farlo, mettendo in circolazione il pensiero dell’autore in forma diversa da quella che voleva.

Orazio diceva che ciò che non è stato edito si può distruggere ma la parola sfuggita dalla bocca non si può richiamare indietro. Ciò significa che l’autore non poteva vantare alcun diritto sull’aspetto immateriale dell’opera che pure poteva dire come sua.

Altre vicende simili a quella di Quintiliano sono quella del medico Galeno, che svolse attività didattica a Roma accompagnata dalla stesura di appunti di riferimento per i quali escludeva la diffusione come meditata opera scritta. Galeno è preoccupato di una sua possibile diffusione non autorizzata, sia a causa di possibili distorsioni del proprio pensiero, sia per il diverso tenore dello stile compositivo. Per contrastarne la diffusione gli appunti furono ricomprati dall’autore, rielaborati e forniti di un titolo; versioni discordanti furono sostituite da una versione ufficiale.

era liberamente riproducibile.

  • lucrabantur in vendendo: messa in risalto l’attività imprenditoriale dell’editore che sulla base delle sue previsioni di successo dell’opera disponeva un certo numero di copie da riprodurre. Non era comunque tutelato l’editore una volta distribuite le copie prodotte, tutti potevano riprodurle, non c’era nessun diritto all’esclusiva.

Nel rapporto intercorrente tra autore e libro si faceva riferimento al termine proprietà, ma usato in senso atecnico, solo per indicare l’appartenenza dell’opera dal punto di vista compositivo, tanto che un autore poteva comprare dall’editore, proprietario vero delle copie allestite, il libro stesso.

Seneca fa l’esempio di un libro con due soggetti che sono domini: uno è l’autore, l’altro è l’editore. Le due cose possono coesistere per Seneca, poiché una cosa è la proprietà (dell’autore) e l’altra è l’uso, cioè l’esercizio concreto del potere sulla cosa (dell’editore). Il primo lo produce, il secondo lo acquista. La proprietà è vista come basata sul momento creativo, il proprietario è l’autore; in realtà questa visione non è giuridica: il vero proprietario è l’editore. Questo si vede dalla possibilità dell’autore di acquistare dall’editore una copia del proprio libro.

Cicerone estende analogicamente la disciplina relativa ai proprietari dei fondi limitrofi a quella relativa alla paternità di un’idea: all’appropriazione delle idee altrui è fatta corrispondere l’appropriazione del terreno del vicino ed è significativo come anche qui ci sia un accostamento con la realtà agraria. E’ utilizzato il principio relativo ai rapporti di vicinanza tra fondi rustici, il divieto di usucapione entro 5 piedi. Gli argomenti dei due contendenti sono equiparati alla zona confinaria dei 5 piedi di due proprietà fondiarie limitrofe, zona che non è usucapibile secondo disposizione decemvirale. Non c’è più un furto ma una violazione di confini. L’idea, a differenza dell’opera, viene considerata come una cosa immobile, come il fondo e quindi insuscettibile di furto, ma solo di sconfinamento.

Tale fluidità nelle concezioni giuridiche mostra l’assenza di una effettiva qualificazione giuridica dell’opera letteraria confermando il mancato inquadramento della paternità dell’opera nello schema giuridico della proprietà nonostante la comune percezione in termini di appartenenza del rapporto tra l’autore e la sua creazione.

Quello che poi sarà definito come plagio letterario all’inizio era visto da Cicerone e Terenzio come furto. Sono i casi in cui si è fatto uso di un’opera altrui diffondendola ed indicandola come propria. Questo vale ad esempio per l’opera Commentarium consulatus mei, Graece compositum, per la quale Cicerone accusa Attico di furto.

Sempre al furtum faceva riferimento Orazio facendo riferimento alla favola di Esopo ripresa da Fedro, indicando il fatto che una volta smascherati ci si sarebbe coperti di ridicolo.

Anche Plinio fa riferimento all’immagine del furto, nella prefazione delle Naturalis Historia, sottolineando in contrapposizione, il carattere del tutto autonomo della sua opera più importante.

Lo stesso carattere di furto è attribuito da Marziale a chi presentava in forma scritta un’opera altrui come propria. Anche Svetonio accomuna il furto al plagio letterario, riportando l’aspra satira di Leneo, liberto di Pompeo, nei confronti di Sallustio.

Anche Virigilio, come ci riporta il biografo Donato, era stato accusato di furto: Virgilio non nega di riprendere dei versi da Omero, ma anzi sottolinea la difficoltà di questa operazione letteraria e sfida i suoi accusatori a fare lo stesso.

Anche in questi casi appare difficile configurare l’illecito di furto, sembra invece corretta l’ipotesi di un uso furtivo delle opere altrui consistente nel sottrarre da esse, facendole proprie, solamente alcune frasi o espressioni. Per questo non era prevista la possibilità di esperire un’actio furti: solo Vitruvio ne parla un volta, ma l’episodio ha avuto luogo ad Alessandria d’Egitto e quindi non ha avuto una disciplina romanistica. La pratica di prendere pezzi di testi, soprattutto da autori antichi, era diffusissima a Roma, forse proprio per l’impossibilità da parte dell’ordinamento di sanzionare il fatto.

A tutela dell’autore, danneggiato dal plagio letterario, non era esperibile nemmeno l’actio iniuriarum: non c’è riscontro nelle fonti per questa interpretazione.

Per tutti i casi appena visti il richiamo alla figura del furto non ha alcune valore tecnico, poiché non si è mai verificata la sottrazione del manoscritto. Il discorso non è differente nel caso in cui si abbia una falsa attribuzione di composizione letteraria.

Il primo episodio citato è quello di Virgilio che si vede derubato di un distico elegiaco: i suoi meriti sono presi da Battilo, un poeta mediocre. Virgilio scrive un poema sull’episodio: egli pone sul suo stesso piano gli animali della cui attività e produzione si giovano gli uomini ed esclude di configurare come per le api sul miele, il bue sul campo arato, le pecore sulla lana, per l’autore un diritto alla propria opera.

L’unico modo per tutelare i veri autori, era dare massima diffusione al testo nella sua versione originale, in modo che la sua generalizzata conoscenza potesse scoraggiare quanti avessero avuto intenzione di contraffarlo o spacciarlo come proprio.

Anche Seneca il Retore (padre di Seneca) la pensa in questa maniera: nella prefazione delle sue Contrversiae, opera che raccoglie brani di orazione relative a cause civili, il retore dichiara di voler rendere di pubblica conoscenza non solo per preservare la memoria dei singoli, ma anche per arginare le falsificazioni e le manipolazioni della loro opera affinché non restassero ignorati o venissero conosciuti in una forma che non era quella dovuta.

Plinio esorta l’amico Ottavio perché pubblichi i suoi scritti che già contro il suo volere circolavano, con il rischio di venir riferiti ad un altro autore. L’esigenza è ancora quella di esatta attribuzione dell’opera letteraria.

Infine lo stesso medico Galeno, che non aveva dato un titolo ai propri scritti, si era visto sottrarre la paternità di questi: un esempio è un discorso tenuto pubblicamente per screditare il modesto medico di nome Marziale; da qui Galeno avrebbe deciso di non tenere più discorsi in pubblico. Nel suo caso per accadeva anche il fenomeno opposto: gli erano attribuiti scritti non suoi. Il rimedio per lui era stata la redazione di un indice delle sue opere.

Il carattere comune è sempre la mancanza di una forma di tutela processuale: l’unica forma di tutela consigliata e messa in pratica è rendere edotto il pubblico fornendo un elenco dettagliato delle proprie opere e del loro contento.

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Riassunto Istituzioni di diritto romano

Corso: Diritto romano

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DIRITTO ROMANO DELLE PERSONE E DELLA FAMIGLIA
CENNI INTRODUTTIVI
L’attività letteraria di un autore è riferita in termini di appartenenza: l’esempio lampante è l’uso
metaforico del termine nascita di un opera per descrivere il risultato letterario dell’attività
intellettuale.
Emergono i due significati del verbo edere:
- attività indirizzata a rendere disponibile un’opera a vantaggio di un pubblico di potenziali
lettori (significato più ristretto)
- nascere (significato più ampio) - (spesso usato nella forma edo in lucem).
La creazione di un’opera è equiparata alla gestazione e alla nascita di un essere vivente. A questa
metafora non si può aggiungere quella di maternità, dato che la produzione intellettuale era
pressoché totalmente maschile, così di fa riferimento al concetto di paternità letteraria. (esempio
Ovidio, ne i Tristia, nel quale il libro parla in prima persona e cita l’autore come padre e gli altri
volumi come fratelli).
Figlio ed opera prodotta sono messi sullo stesso piano, concepiti entrambi come creazioni sulla
base di un rapporto di derivazione naturale. Sul piano giuridico la disciplina, riguardo a
appartenenza, disposizione e tutela giuridica era differente: essendo il libro una res incorporalis
ad esso non si potevano applicare le forme giuridiche di tutela o disposizione tipiche delle res
corporalis, come ad esempio mancipatio e vindicatio.
La giurisprudenza (Gaio in particolare) elabora il principio litterae chartis cedunt (Gai 2.77)
sulle basi di un principio precedente relativo alla agricoltura e basato sul presupposto che il
supporto scrittorio appartenesse all’autore sia che scrivesse autonomamente sia che fosse scritto
sotto dettatura. Non si da rilevanza alla scrittura ma all’attività tecnica dello scrivere sia che
fosse dell’autore che dello scriba.
CAPITOLO I - L’ORIGINE DEL PRINCIPIO LITTERAE CHARTIS CEDUNT : LA METAFORA
AGRICOLA DELLO SCRIVERE
Ritrovamento da parte di Nino Tamassia di un testo, cd indovinello veronese: la traduzione
migliore pare essere “il bifolco si preparava i buoi, i prati bianchi arava, e teneva il bianco aratro,
e il nero seme seminava”.
Nel 1928 il filologo DeBartholomaeis svela il vero senso del testo: viene paragonata l’attività
dello scrivere all’attività dell’aratura e della semina, descrivendo le dita che guidano la penna
come buoi, il foglio come campo, la penna come l’aratro e l’inchiostro come la semenza.
Il paragone tra la semina e la scrittura è molto risalente ed è rintracciabile in alcuni termini
della lingua latina:
arare (insieme a exarare, inarare, perarare) significa sia arare che scrivere, come si vede in
due frammenti dei Comici; uno di Titinio che descrive la tabella littararia come campus cereus da
arare, cioè da scrivere e il secondo di Isidoro di Siviglia, nel quale è descritto il campo fatto di
cera e lo stilo come un aratro.
versus, la riga intesa come allineamento di lettere e allo stesso modo il solco dell’aratura.
legere per indicare la raccolta dei frutti (Plinio nelle Naturalis Historia). Anche Paolo Diacono
paragona la lettura a una perlustrazione di un candido campo solcato da un aratro e il testo
scritto come verba exarata)
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