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Neorealismo

riassunto completo del libro Neorealismo di Francesco De Nicola
Corso

Letteratura e sistema editoriale nell’Italia moderna e contemporanea

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Anno accademico: 2020/2021
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AutoreFrancesco De Nicola
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NEOREALISMO Francesco De Nicola

IL CONTESTO STORICO Fascismo e cultura Le più profonde radici storiche e culturali del neorealismo si possono far risalire alla seconda metà degli anni Venti, si affermò un modello d’intellettuale largamente rappresentato per lo più da scrittori di mediocre talento, ma di buon successo editoriale, ispirato a d’Annunzio, portato all’ostentazione di sé con atteggiamenti plateali e aperto alle esperienze più inusuali, in nome di un culto estremo per ogni appariscente modernità. Accanto a questo versante aristocratico, iniziava ad affermarsi un altro modello meno raffinato, ma comunque importante politicamente, aveva preso campo richiamandosi alle radici popolari e provinciali del paese, senza dimenticare il recupero in chiave moderna della tradizione romana.

Il “novecentismo” La linea prevalente del fascismo presentava un evidente carattere nazionale, ma non mancava chi si sottraeva al compito di procurare consensi al regime. Massimo Bontempelli nel 1926 fondò a Parigi la rivista “900”, scritta in francese e aperta alle collaborazioni più varie, che voleva ridimensionare la cultura italiana, ma incontrò l’opposizione fascista e chiuse nel 1929. Nel 1927 voleva pubblicare 60 romanzi della sua corrente, ma questo progetto non fu realizzato, ma dimostra l’impegno a rilanciare il genere narrativo del romanzo, ad un livello non consumistico. Bontempelli aveva individuato, all’interno del genere romanzo, quell’insieme di elementi tra realtà e magia, definita poi “realismo magico”, rappresentata da alcuni romanzi dello stesso Bontempelli come Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930). Il modello narrativo dannunziano viene accantonato per recuperare quel contatto con la realtà, che poteva trovare il suo antecedente nel verismo, il cui principale esponente era Giovanni Verga. Il recupero di Verga servì a delineare un nuovo territorio letterario e intellettuale, critico nei confronti del modello fascista del quale rifiutava sia i toni della celebrazione estetizzante e nazionalistica, sia la chiusura nei confronti della più libera e moderna civiltà europea. Questo nuovo territorio fu ben esplorato dalla rivista fiorentina “Solaria”, fondata da Alberto Carocci nel 1926 e vissuta fino al 1934, divenne la voce ufficiale del rinnovamento letterario italiano, soprattutto per l’attenzione rivolta agli scrittori stranieri e a quelli italiani lontani dalla proposta letteraria di regime.

Gli incubi del neorealismo Nel saggio Letteratura russa a volo d’uccello di Umberto Barbaro è comparsa per la prima volta in sede critica la parola “neorealismo”, definizione già in uso all’inizio del Novecento per indicare un indirizzo filosofico di origine inglese avverso all’idealismo. Molto probabilmente Barbaro aveva usato il termine richiamandosi al movimento tedesco delle Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), intendeva definire con neorealismo una narrativa che pur rifacendosi alla letteratura dell’Ottocento, non può dirsi un vero e proprio ritorno ma invece a caratteri di novità. La produzione letteraria italiana presentava negli anni Trenta alcune opere che possono intendersi come anticipatrici del neorealismo, come La ragazza di fabbrica di Armando Meoni del 1931. L’opera di Bernardi aveva risentito di un più generale il clima culturale e di una diffusa esigenza di adesione alla realtà minuta e spesso misera della quotidianità operaia, che evidentemente sopravviveva all’impegno di regime di rappresentare un’immagine tutta in positivo del nostro paese, che per essere tale doveva ignorare proprio la vita reale e i gravi problemi dell’Italia di allora.

Il cinema italiano negli anni del fascismo

Il tema operaio trattato da Bernari, venne ripreso da Romano Bilenchi nel romanzo Il capofabbrica del 1935, era però nell’aria anche in altri settori della nostra attività artistica. Nel 1933 era stato prodotto in Italia il film Acciaio , che raccontava la storia di due operai delle acciaierie di Terni innamorati di una stessa ragazza. Venne chiamato il regista tedesco Walter Ruttmann, il film aveva un forte indirizzo realistico, mentre prevaleva un cinema di regime lontano dalla rappresentazione della realtà dei contrari alla presenza di operai e delle classi subalterni nel ruolo di protagonisti. Per evitare pericolosi sviamenti dall’ortodossia fascista il regime istituì nel 1935 la Direzione generale per la cinematografia e nel 1937 inaugurò Cinecittà, avviando così un processo di controllo e omologazione volto a ridurre il cinema strumento di consenso e di propaganda.

Verso la rappresentazione della realtà Negli anni Trenta gran parte di scrittori contemporanei italiani proponeva intenti di propaganda, lontani da un effettivo rapporto con la realtà e con i problemi del paese. La guerra d’Etiopia del 1935-1936 e la guerra di Spagna del 1936-1939, aprirono gli occhi sull’effettivo volto del fascismo a intellettuali e artisti, fino ad allora fiduciosi di poter almeno allentare dall’interno i vincoli del regime. L’neppure la maggiore consapevolezza dei problemi di fondo della realtà politica e sociale italiana, determinò tra i nostri scrittori una più attenta inclinazione a rappresentare la realtà quotidiana. Pur moltiplicandosi le traduzioni di testi narrativi nord-americani che avrebbero dato vita al “mito americano”, erano piuttosto rari gli scrittori italiani che si proponevano di raccontare la più aspra realtà del presente. Veniva respinta la figura dello scrittore di consumo facile a piegarsi alle richieste di sostegno del potere, si delineava così una presa di distanze sempre più forte rispetto alle posizioni conformiste e ortodosse degli scrittori di successo del fascismo.

La spinta decisiva del cinema L’interesse diffuso in Italia verso la fine degli anni Trenta per l’opera degli scrittori stranieri ebbe un fenomeno parallelo nell’attenzione crescente con la quale si cominciò a guardare al cinema straniero, soprattutto per quello drammatico e calato nel vivo dei problemi sociali di Fritz Lang e John Ford. Il cinema straniero di impronta realistica determinò ben presto una spinta consistente in questa direzione tra i nostri registi meno assoggettati al cinema di regime e che avevano rivelato una netta predisposizione a indagare la realtà italiana. A questo proposito era stata esemplare l’opera in difesa dei poveri e dei proletari di Mario camerini con Gli uomini, che mascalzoni (1932) e Una storia d’amore (1942). Altri cineasti si stavano orientando verso un cinema che era segnato dal gusto della cronaca e degli ambienti popolari, resa ancora più evidente dall’uso del dialetto, che contribuirono ad aprire la strada al neorealismo. Nei primi anni Quaranta si ritrovava un’angolazione realistica per lo più in pellicole drammatiche con conflitti personali e sociali, come Ossessione di Luchino Visconti (1943). Un simbolo teorico determinante in questa direzione era stato dato dall’articolo programmatico Verità e poesia: Verga e il cinema italiano di Mario Alica ta e Giuseppe De Santis, uscito sulla rivista “Cinema” nel 1941. L’articolo sottolineava il ruolo centrale dello scrittore italiano nella rappresentazione della realtà e auspicava a una simbiosi tra la lettura sviluppata sul filone dei Flaubert, Zola e Verga e il cinema del realismo sovietico e dei registi francesi degli anni Trenta, per documentare i problemi più attuali e più veri del paese. Da questo articolo si può affermare che ebbe inizio in neorealismo, inteso come consapevole partecipazione degli artisti a rinnovamento della società italiana sconvolta da una guerra tremenda.

NASCITA E SVILUPPO DEL NEOREALISMO Una svolta nel cinema italiano: Roma città aperta

sensibilità recepire gli esiti più interessanti del lavoro pittorico di Domenico Purificato e Renato Guttuso, i quali ritraevano il popolo nei momenti di lavoro. La massiccia produzione cinematografica nei primi anni del dopo guerra finì per scontrarsi con la progressiva differenziazione degli spettatori infatti, dopo l’iniziale successo, gli altri film neorealisti ebbero incassi sempre più modesti, sia per un generale allentamento della tensione civile, sia per i buoni risultati riscossi dal cinema hollywoodiano. Si può anche ricordare l’atteggiamento governativo generalmente avverso al cinema neorealista, accusato di diffondere all’estero un’immagine negativa dell’Italia. Per cercare di riconquistare il mercato alcuni cineasti italiani cercarono di rinnovarsi sostituendo spontaneità degli attori non professionisti e all’essenzialità degli scenari delle strade il ricorso ad ambienti più costruiti nei quali si muovono attori e attrici popolari.

Tra documenti e creatività Una delle qualità fondamentali del cinema neorealista era stata la rappresentazione diretta degli eventi cui aveva dato un contributo decisivo esperienza dei documentari giranti durante la guerra. Numerose furono le pellicole che utilizzarono spezzoni di documentari come Giorni di gloria (1945) di Mario Serandrei, ma anche in Paisà le iniziali immagini notturne di pattuglia alleati che penetravano in territorio italiano apparivano come espressione di un cinegiornale sulla guerra. Un fenomeno analogo si ebbe pure in ambito letterario con una produzione di diari, memoriale, testimonianze ricostruzioni, espressioni spontanee degli stessi protagonisti della lotta. Quasi sempre questi testi erano la trasposizione scritta dei racconti orali sulla resistenza, la loro pubblicazione nasceva dall’esigenza di dare una testimonianza non effimera degli episodi ai quali gli autori avevano partecipato. Questa fase si protrasse fino alla fine del 1945, quando dopo la caduta del governo Parri prese il potere una coalizione guidato dal democristiano Alcide De Gasperi e sostenuto dal Vaticano e gli Stati Uniti, che volevano tagliare fuori dal governo i comunisti per favorire un’ambigua restaurazione. Tra 1946 e 1948 continuarono comunque le produzioni di memorialistica resistenziale, ormai non più solo come testimonianze, ma intese come stimolo a non dimenticare. Davanti al tentativo delle forze politiche di ridimensionare il significato della lotta di liberazione, l’unica arma era l’impegno intellettuale, che determinò un incremento nella produzione libraria. La curiosità per le vicende della guerra aveva sollecitato un ampio interesse per la saggistica storico-politica, ma anche per quella straniera e in genere per quella fino ad allora boicottata dal fascismo, ma rimaneva la narrativa quella che vendeva il maggior numero di libri. Il primo libro di grande successo del dopoguerra fu Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi, che uscì nella collana di saggistica di Einaudi.

Tipologia di racconto resistenziale In questo contesto di ridefinizione dei generi letterari, nell’immediato dopoguerra proliferano i testi suggeriti dalle vicende politiche e militari appena concluse. Nella stagione neorealista era comune l’impegno ad attenersi alla verità dei fatti e a partecipare al rinnovamento della società. Gli scrittori del neorealismo affrontarono soprattutto il tema della lotta partigiana, proponendo un rifiuto degli schemi tradizionali e codificati soprattutto nel romanzo, tanto che spesso gli autori si preoccupavano di mimetizzare la loro presenza e assicuravano al lettore che le pagine che gli stava per leggere erano una diretta riproduzione della realtà e non appartenevano al mondo dell’invenzione letteraria. La stessa presa di distanza ritornava anche in opere di carattere più narrativo, tanto che nel 1947 Pratolini precisava che Cronaca familiare , non era un’opera di fantasia. Mentre il cinema di argomento resistenziale aveva cercato di sottrarsi ai toni celebrativi e di attribuire credibilità ai suoi personaggi, ciò accadeva di rado nella narrativa, di questi racconti era protagonista un eroe positivo, portavoce ed espressione fiducioso dello spirito della resistenza, di

origini popolari, manifestate soprattutto dal frequente ricorso al dialetto E comunque un linguaggio medio-basso e rigorosamente non letterario.

Un romanzo discusso: Uomini e no La produzione di tanti racconti fu indirettamente incoraggiata dal romanzo sulla Resistenza pubblicato dopo la Liberazione, Uomini e no di Elio Vittorini, scritto nel 1944 quando l’autore era incarcerato a Milano, per la sua attività nella resistenza. Vittorini ritenne che un romanzo sulla Resistenza non dovesse limitarsi a raccontare in termini di cronaca la crudeltà degli eventi, ma anche dovesse riflettere su di essi, offrendone una visione propositiva. Il romanzo si presenta scandito in due tempi che si alternavano: i capitoli stampati in carattere tondo raccontavano le imprese compiute a Milano nell’inverno 1943-1944 del Gap, mentre i successivi capitoli stampati in corsivo commentavano quelle vicende. L’accoglienza dei lettori al libro non fu entusiastica, ma neppure la critica di sinistra lo apprezzò.

I nuovi scrittori C’era l’esigenza di individuare una nuova immagine di scrittore, simile a quella degli americani, di questa necessità si rese interprete Italo Calvino. Vittorini era tra i più convinti sostenitori della necessità che la nostra nuova letteratura uscisse dagli schemi e si impegnasse sui problemi della società, quest’orientamento emergeva dei suoi interventi apparsi su “Il Politecnico”, settimanale di cultura da lui fondato e diretto fino alla chiusura nel 1947. Ques to periodico era considerato il più diffuso portavoce dello slancio civile che accomuna molti italiani usciti dalla guerra animati dalla volontà di contribuire a rinnovare la società, ed è proprio questo l’obiettivo principale della rivista. Per Vittorini era determinante l’apporto di forze intellettuali di vario orientamento ideologico per rinnovare la società. Oltre a perseguire l’obiettivo di non allineamento politico, “Il Politecnico” guardava con attenzione i nuovi fenomeni culturali non intaccati dei vizi della vecchia cultura, e questo apporto fu richiesto agli stessi lettori. Oltre all’allargamento dei lettori, ci fu un allargamento degli autori, Vittorini cercava nuovi scrittori che giungessero come gli americani, e queste sollecitazioni spinsero molti giovani scrittori ad inviare propri lavori. Secondo Calvino, Marcello Venturi con i racconti Un campo di mine e Cinque minuti di tempo , era lo scrittore che meglio aveva rappresentato gli obiettivi letterari civili del neorealismo, inoltre indicava che ormai si doveva ritenere esaurita la prima fase della produzione narrativa a tema resistenziale, fondata su una rappresentazione didascalica ormai prevedibile e ripetitiva, ormai diventata moda dopo un paio di anni di racconti spesso simili tra loro per argomenti tratta e per la componente formale. Il romanzo di Calvino Il sentiero dei nidi di ragno è molto lontano, per obiettivi e scrittura da Uomini e no. Con l’opera di Calvino si poteva considerare conclusa quella prima fase del neorealismo letterario segnato da una produzione che voleva apparire immediata, nata dai fatti non da un’invenzione, Calvino invece aveva dimostrato che si poteva continuare esprimere un altro impegno civile in letteratura, anche senza enfatizzare racconto delle vicende resistenziali.

Altri scrittori di guerra A qualche anno di distanza dalla fine della guerra ricominciò a diffondersi una narrativa dai temi più leggeri, ma non di bassa qualità, t uttavia uscirono alcuni libri sulla guerra destinati a dare una testimonianza per la carica di verità che li caratterizzava e quindi per la stretta affinità con il neorealismo. Questo è il caso di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, che sarebbe riduttivo definire una testimonianza e tuttavia si presentava sotto forma di resoconto della persecuzione degli ebrei in un campo nazista, impostato sulla essenzialità e la secchezza anche stilistica.

rivolto le loro attenzioni anche i cineasti in film come Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis. In questa pellicola il tema dello sfruttamento del lavoro contadino si incrociava con quello della condizione femminile di sfruttamento che cominciava allora a destare qualche interesse, anche se sugli schermi l’immagine della donna borghese prevaleva su quella proletaria lavoratrice. In Miracolo a Milano (1951) De Sica aveva affrontato il tema della giustizia impossibile per gli emarginati ai quali rimaneva solo il sogno come via d’uscita. La componente dei protagonisti del loro agire era fiabesca, ma allacciato alla realtà e invece lo sfondo sociale, quindi questo film appariva come un interessante tentativo di rinnovare e rivitalizzare il neorealismo più canonico. De Sica e Zavattini sarebbero tornati al neorealismo con Umberto D ( 1952), la storia di un vecchio statale interpretato, da un attore non professionista, costretto a vivere con una misera pensione. Il film ebbe un forte impatto sul pubblico e provocò anche una reazione delle forze governative, indirettamente accusate di trascurare i problemi sociali. Questo atteggiamento di chiusura delle forze conservatrici di un certo rilassamento della tensione civile, favorirono l’affermazione sia di un cinema italiano imitazione di quello americano, sia di una pro duzione popolare della quale avevano aperto la strada dei grandi successi di Fabiola (1948) di Alessandro Blasetti e di Catene (1949) di Raffaello Matarazzo, avviando così una stagione fatta prevalentemente di film melodrammatici o vacuamente comici, musicali e comunque di leggere intrattenimento. Fortunatamente non si era del tutto esaurito il filone del cinema più impegnato e una delle proposte fu Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, che aveva affrontato le problematiche del meridionalismo in chiave morale. Si era attenuata anche l’attenzione per i problemi collettivi che aveva animato nel realismo e il film che segnerà quasi ufficialmente la fine fu Senso (1954) di Luchino Visconti.

Gli ultimi scrittori del neorealismo Nel 1955 con il romanzo Metello di Pratolini si poteva considerare chiuse anche l’esperienza neorealista degli scrittori. Anche per la letteratura non erano mancati gli ostacoli frapposti dei conservatori, ma nei primi anni Cinquanta in Italia fiorirono numerosi talenti letterari in buona parte ricollegabili proprio al neorealismo. Molti arrivavano dalla collana narrativa “I gettoni” fondata nel 1951 presso Einaudi da Elio Vittorini e aperta a giovani scrittori italiani che si misurassero con i problemi più sentiti dell’Italia contemporanea. Vittorini, più che su elementi tematici e di scrittura, concentrava l’attenzione soprattutto sulla storia dei suoi attori, richiedeva che si presentassero una natura irregolare o quasi primitiva, intesa come garanzia di sano distacco dal mondo ufficiale delle lettere. Ridiede fiato a un neorealismo legato agli schemi ideologici rigidi del dopoguerra e sostenuto dall’impegno a rappresentare situazioni individuali spesso determinati da casi di ingiustizie collettiva. Continuava comunque a guardare al neorealismo, spesso recuperandone i temi, ma non c’era più quella tensione che si ritrovava nella narrativa del dopoguerra. I romanzi Fausto e Anna di Cassola e I ventitrè giorni della città di Alba di Fenoglio, non diedero la consueta rappresentazione celebrativa della resistenza, il primo esprimeva le perplessità del protagonista sul movimento attivo in Toscana e secondo presentava come protagoniste dei partigiani rissosi e meschini, senza dimenticare quelli valorosi che risultavano in minoranza. Questi due libri, oltre ad aver sollevato la protesta dei vertici del PCI, avevano anche dimostrato che ormai era finita l’epoca della rappresentazione a senso unico dei fatti della guerra e del dopoguerra e sancivano quel taglio tra arte e politica. Alcuni testi ospitati nei “Gettoni” rivelarono il superamento compiuto da chi aveva avuto le occasioni e il tempo per riflettere sugli avvenimenti vissuti e che intendeva raccontare. Queste furono le premesse che portarono all’affermazione di quella collana, è proprio la varietà stilistica di questi autori conferma che Vittorini accolse testi molto diversi tra loro, pur prediligendo un rinnovato ed estremo neorealismo che ravvivassero narrativa in genere è già piuttosto incline ad allontanarsi dei problemi del presente per ricollegarsi al filone del romanzo ottocentesco. Uno dei

libri che aveva avviato il processo di superamento del neorealismo fu il racconto di Fenoglio La malora (1954), nel quale l’autore aveva utilizzato gli elementi tipici della letteratura e nella lista cioè un protagonista narrante in prima persona, il tempo dello sfruttamento del lavoro nelle campagne, l’ampio ricorso alle voci dialettali. Ma nonostante ciò aveva evitato sia l’impegno politico e civile, sia il richiamo alla contemporaneità, mancava quindi la tensione sociale, il personaggio positivo che si ribellasse per eliminare ingiustizie e soprusi, mentre il protagonista appariva dominato dal suo personale bisogno di riscatto.

La polemica conclusiva su Metello Il romanzo di Pratolini Metello , ospitato sulle riviste “Società” e “Il Contemporaneo” suscitò molte polemiche. Già nell’aprile 1954 era stata avviata questa polemica da Carlo Muscetta su “Società” e ripresa dallo stesso critico sull’ “Unità” nel 1955, in entrambe sosteneva la pericolosa genericità della definizione di neorealismo, e rilevava la mancanza di un dibattito teorico e critico sulla produzione definita neo realista. Le vicende raccontate in Metello erano comprese tra 1872 e 1902, e ne era protagonista il muratore Metello Sellani. Pratolini aveva raccontato la vicenda esemplare di un lavoratore italiano al tempo delle prime lotte di classe, tra repressione e sindacalismo, senza dimenticare la sua sfera privata e sentimentale. Un tale romanzo avrebbe dovuto incontrare il favore dei lettori di sinistra, ma Muscetta accusò l’autore di aver fatto della letteratura di intrattenimento e di essere rimasto fedele alla prosa d’arte, il personaggio gli appariva quasi comico e i rapporti sociali risultavano troppo schematici. Per Salinari invece il romanzo aveva segnato il superamento di alcune delle costanti del decadentismo.

I poeti Nel 1945 sulla rivista “Costume” era preannunciata la prossima uscita di quella che venne definita come la prima voce di poesia della resistenza italiana, cioè la raccolta con Il piede straniero sopra il cuore di Salvatore Quasimodo. Pochi giorni dopo il numero della Liberazione dell’“Unità” presentava in prima pagina una poesia anonima intitolata Insorgete!. Gli autori delle poesie del dopo guerra cercavano di esporre in versi i loro ideali con un linguaggio spesso troppo prosastico o raccontavano nude memorie di guerra che difficilmente raggiungevano la poesia. I soli modelli che rispondessero all’idea di una poesia direttamente profondamente radicate nella vita potevano essere soli testi dei poeti stranieri, quelli sensibili ai temi sociali e civili, oltre i poeti più espressionisti come Garcìa Lorca, Walt Whitman e Edgar Lee Masters. In realtà il problema di una poesia capace di rappresentare la tragica realtà del presente era stato posto ad Antonio Rossi a guerra ancora in corso nella rivista napoletana “Aretusa”, l’articolo però era essenzialmente polemico nei confronti dell’ermetismo. Non furono molti gli autori che seppero dare un’efficace versione in poesia del neorealismo, però possiamo ricordare Franco Fortini con la raccolta Foglio di vita e altri versi (1946) e la raccolta Gli anni tedeschi di Giorgio Caproni. Furono più saldi e continui i rapporti con il neorealismo di altri poeti come Dino Menichini con Ho perduto i compagni (1947) e Patria del mio sangue (1950), Elio Filippo Accrocca con Portonaccio (1949), Mario Socrate con Poesie illustrate (1950), Velso Mucci con L’umana compagnia (1953). Passando dal tema resistenziale e quello sociale il panorama qualitativo non si allarga di molto e l’unico nome che merita di essere ricordato è Rocco Scotellaro che con è fatto giorno ( 1954) sì raccontare la condizione difficile e non rassegnato del mondo contadino meridionale nell’Italia che sembrava aprirsi una nuova era di civiltà.

I PROTAGONISTI

Collaborò ancora con De Sica in La ciociara (1960), Il giudizio universale (1961), Il boom (1963), Matrimonio all’italiana (1964) e Il giardino dei Finzi-Contini (1971). Nel 1982 fu regista e interprete di La Veritaaa.

Elio Vittorini L’unico romanzo neorealista di Vittorini fu Uomini e no e il fatto che andasse al di là del reale era chiaro anche dai suoi primi racconti Piccola Borghesia (1931). Sardegna come un’infanzia (1932) era orientato verso la lirica, Il garofano rosso ( 1933-36) invece era orientato alla politica. In Erica e suoi fratelli (1936) affrontò un tema sociale ma senza l’adesione al reale, anche in Conversazioni in Sicilia (1941) punterà sul versante lirico-simbolico. Da queste opere Vittorini lasciava trapelare una volontà inespressa di mettere sotto accusa cui sistema politico di regime. Aveva affidato questa volontà di denuncia soprattutto la sua attività di traduttore e di consulente editoriale e in questa luce si può vedere il suo impegno assunto presso Bompiani all’inizio degli anni Quaranta per fondare una collana popolare per lettori autodidatti e curiosi. Durante la guerra nel romanzo Uomini e no (1945), voleva raccontare lo sconvolgimento provato dalla tragedia cui stava assistendo, con una scrittura che mirava all’essenza delle cose, sulla lunghezza del neorealismo, da lui stesso incoraggiato nel “Politecnico”. Quando più tardi affrontò il tema della ricostruzione nel dopoguerra con Le donne di Messina (1948), tornò alla fusione di elementi della realtà con quelli del sogno e dell’utopia, che si ritroverà anche in La Garibaldina (1956) e Citta del mondo (1969). Rimase viva in Vittorini una forte contraddizione tra la propria opera di scrittore e la sua attività di scopritore di talenti capaci di andare all’essenza dei problemi con il taglio asciutto del cronista e la capacità di far conoscere una precisa realtà. Nel 1959 fondò con Italo Calvino la rivista letteraria “Il Menabò”.

Marcello Venturi Fu uno scrittore scoperto da Vittorini e quello che ne è stato maggiormente influenzato. Vittorini lo accolse tra i collaboratori del “Politecnico” nel 1946 con un paio di racconti, poi in un progetto volto a pubblicare sulla rivista testimonianze di scrittori sulla realtà sociale della provincia italiana. In seguito, l’avvio a collaborare alle terze pagine dell’“Unità” con racconti che rappresentavano l’essenza del neorealismo. Venturi aveva elaborato una tecnica narrativa originale, i suoi protagonisti preferivano suicidarsi piuttosto che consegnarsi e le forze nemiche, così capitava in Cinque minuti di tempo e in Gli assediati. Continua scrivere racconti sulla resistenza i quali rivelarono la sua qualità migliore cioè di non lasciare intuire l’epilogo della vicenda e riuscire a tenere il lettore con il fiato sospeso sino all’ultima parola, seguendo questa tecnica scrisse il racconto La ragazza se ne va con diavolo (1946). Qualche anno dopo passo a raccontare la sua nostalgia per i paesi dell’infanzia, ma rimaneva costante l’impegno civile. Grazie al suo modo di rappresentare la realtà, si può considerare lo scrittore che ha saputo esprimere le caratteristiche migliori della narrativa neorealistica. Anche in anni successivi rimase fedele al suo modo di ricercare la verità come in Bandiera bianca a Cefalonia (1963), Più lontane stazioni (1970), Il padrone dell’agricola (1979), Dalla parte sbagliata (1985), Tempo supplementare (2000), All’altezza del cuore (2008)

Franco Matacotta Il primo risultato della sua attività in versi furono i Poemetti (1941) che cercavano un punto di rottura dall’ermetismo. Durante la guerra fu un soldato che poi passo alla Resistenza con il nome di Franco Monterosso, con il quale firmerà alcuni dei suoi libri. Concretizzerà i ricordi della guerra nella raccolta Fisarmonica rossa (1945) e la lirica di apertura si intitolava Ottobre 1942. Nei componimenti

della raccolta Matacotta si rendeva interprete dei drammi della gente comune e delle sue speranze con un linguaggio e delle rime semplici che sembravano quasi delle filastrocche. Riusciva a fondere il lirismo con la violenza della guerra. Un’altra caratteristica dei suoi versi consisteva nella loro organizzazione in voci collettive, espresse con il passaggio del soggetto dalla prima persona singolare alla prima plurale, come segno di un’identità generazionale tra i suoi protagonisti e gli ideali sostenuti. Continuò ad avere una passione politica espressa nel romanzo La lepre bianca (1946) e ne ribadiva la matrice morale nella raccolta I mesi (1956) e Versi copernicani (1957). Tornò anche su una poesia più raccolta e familiare che affrontava temi esistenziali in Gli orti marchigiani (1959).

L’EREDITA’ DEL NEOREALISMO

Il cinema verso la commedia all’italiana Sin dall’inizio degli anni Cinquanta il gusto del pubblico si era trasformato, nel senso di una tendenza a dimenticare i drammi della guerra e capire i problemi del paese, ma a vedere il cinema come fonte di divertimento. I film leggeri che spesso banalizzavano la realtà italiana contemporanea ebbero molo successo, soprattutto tra operai e piccola borghesia che furono esclusi dal cinema neorealista. I maggiori incassi andavano a film americani o alle coproduzioni italoamericane come l’ Ulisse (1953) di Camerini. Trai film italiani più visti possiamo ricordare Core ‘ngrata (1951) di Guido Brignone, Giuseppe Verdi (1953) di Raffaele Matarazzo, Puccini (1953) di Carmine Gallone, Pane, amore e fantasia (1953) e Pane, amore e gelosia (1954) di Luigi Comencini. Queste ultime pellicole avevano contribuito a lanciare la commedia all’italiana, formata da opere mediocri che miravano a conquistare il pubblico. Non mancavano anche film di qualità come I soliti ignoti (1958) di Monicelli, Divorzio all’italiana (1961) di Germi, Il sorpasso (1962) di Risi e Dramma della gelosia (1970) di scola, film che riuscirono offrire efficaci spaccati dell’Italia contemporanea e dei cambiamenti del costume e dei quali spesso neppure mancava l’epilogo drammatico. L’affermazione della commedia all’italiana non soffocò i film impegnati tra denuncia sociale e indagine sociale come la biografia del bandito Salvatore Giuliano (1961), l’accusa agli speculatori dell’edilizia di Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, regista anche di Uomini contro (1970) e Caso Mattei (1971). Ci fu anche un ritorno ai temi resistenziali in La lunga notte del ’43 (1960), La banda Casaroli (1962) di Florestano Vancini, Kapò (1959) e La battagli di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo. Giulio Montaldo in Sacco e Vanzetti (1970) si era impegnato sui diritti umani dei più deboli. Temi neorealisti saranno trattati anche su registi del tutto rinnovati come Rocco e suoi fratelli (1960) dove Visconti affronta in chiave epico corale il tema dell’emigrazione interna o in Accattone (1961) dove Pierpaolo Pasolini trattava in chiave lirica il disagio dei ragazzi delle borgate romane.

Il bestseller italiano La fine del neorealismo era stata testimoniata da alcuni episodi decisivi della seconda metà degli anni Cinquanta. Erano usciti dei romanzi che tendevano a obiettivi ormai lontani dall’impegno sulla realtà degli scrittori del dopoguerra e si ebbe il primo clamoroso caso di un romanzo italiano Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato da Feltrinelli nel 1958, r aggiunse 150. copie vendute dopo aver ottenuto il premio Strega e divenne anche un grande successo cinematografico nella versione di Visconti. Era lontano dal neorealismo, era un tipico romanzo ottocentesco sulla Sicilia nobile e conservatrice del tempo dell’Unita d’Italia. Con Il Gattopardo si era aperta la strada del bestseller italiano, i successivi furono La ragazza di Bube (1960) di Carlo Cassola e Il giardino dei Finzi Contini (1962) di Giorgio Bassani. Questi due romanzi recuperavano temi propri del neorealismo affrontati con un linguaggio più accurato e tradizionale e da

letteratura di fabbrica traspare l’intento di denuncia, anche se espresso con modalità stilistiche varie. Hanno cercato di riportare l’attenzione sulla civiltà contadine, autore emblematico rimane Mario Rigoni Stern che in diversi volumi di racconti come Il bosco degli urogalli (1962) e Arboreto selvatico (1991). La narrativa italiana è andata sempre più riducendo l’attenzione immediata e dichiarata alle problematiche del presente e l’impegno sul piano civile e politico, finendo per allontanarsi spesso dagli schemi del neorealismo e tornando a una dimensione essenzialmente letteraria come aveva dimostrato il successo mondiale del Nome della rosa (1980) di Umberto Eco. In seguito all’involuzione sociale e culturale verificatasi nel nostro paese negli ultimi decenni del Novecento e all’inizio del nuovo secolo, il neorealismo appare ormai concluso, tuttavia è riuscito a farsi interprete diretto di un tempo storico culturale nel quale la maggior parte degli italiani avvertiva con urgenza la spinta a impegnarsi per una comune idea nuova e migliore di civiltà.

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Le più profonde radici storiche e culturali del neorealismo si possono far risalire alla seconda metà
degli anni Venti, si affermò un modello d’intellettuale largamente rappresentato per lo più da
scrittori di mediocre talento, ma di buon successo editoriale, ispirato a d’Annunzio, portato
all’ostentazione di sé con atteggiamenti plateali e aperto alle esperienze più inusuali, in nome di un
culto estremo per ogni appariscente modernità. Accanto a questo versante aristocratico, iniziava ad
affermarsi un altro modello meno raffinato, ma comunque importante politicamente, aveva preso
campo richiamandosi alle radici popolari e provinciali del paese, senza dimenticare il recupero in
chiave moderna della tradizione romana.
Il “novecentismo”
La linea prevalente del fascismo presentava un evidente carattere nazionale, ma non mancava chi
si sottraeva al compito di procurare consensi al regime. Massimo Bontempelli nel 1926 fondò a
Parigi la rivista “900”, scritta in francese e aperta alle collaborazioni più varie, che voleva
ridimensionare la cultura italiana, ma incontrò l’opposizione fascista e chiuse nel 1929. Nel 1927
voleva pubblicare 60 romanzi della sua corrente, ma questo progetto non fu realizzato, ma dimostra
l’impegno a rilanciare il genere narrativo del romanzo, ad un livello non consumistico. Bontempelli
aveva individuato, all’interno del genere romanzo, quell’insieme di elementi tra realtà e magia,
definita poi “realismo magico”, rappresentata da alcuni romanzi dello stesso Bontempelli come Vita
e morte di Adria e dei suoi figli (1930).
Il modello narrativo dannunziano viene accantonato per recuperare quel contatto con la realtà, che
poteva trovare il suo antecedente nel verismo, il cui principale esponente era Giovanni Verga. Il
recupero di Verga servì a delineare un nuovo territorio letterario e intellettuale, critico nei confronti
del modello fascista del quale rifiutava sia i toni della celebrazione estetizzante e nazionalistica, sia
la chiusura nei confronti della più libera e moderna civiltà europea. Questo nuovo territorio fu ben
esplorato dalla rivista fiorentina “Solaria”, fondata da Alberto Carocci nel 1926 e vissuta fino al 1934,
divenne la voce ufficiale del rinnovamento letterario italiano, soprattutto per l’attenzione rivolta
agli scrittori stranieri e a quelli italiani lontani dalla proposta letteraria di regime.
Gli incubi del neorealismo
Nel saggio Letteratura russa a volo d’uccello di Umberto Barbaro è comparsa per la prima volta in
sede critica la parola “neorealismo”, definizione già in uso all’inizio del Novecento per indicare un
indirizzo filosofico di origine inglese avverso all’idealismo.
Molto probabilmente Barbaro aveva usato il termine richiamandosi al movimento tedesco delle
Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), intendeva definire con neorealismo una narrativa che pur
rifacendosi alla letteratura dell’Ottocento, non può dirsi un vero e proprio ritorno ma invece a
caratteri di novità.
La produzione letteraria italiana presentava negli anni Trenta alcune opere che possono intendersi
come anticipatrici del neorealismo, come La ragazza di fabbrica di Armando Meoni del 1931.
L’opera di Bernardi aveva risentito di un più generale il clima culturale e di una diffusa esigenza di
adesione alla realtà minuta e spesso misera della quotidianità operaia, che evidentemente
sopravviveva all’impegno di regime di rappresentare un’immagine tutta in positivo del nostro paese,
che per essere tale doveva ignorare proprio la vita reale e i gravi problemi dell’Italia di allora.
Il cinema italiano negli anni del fascismo