Passa al documento

Devereux - Rinuncia all'identità

Rinuncia all'identità-Devereux riassunto
Corso

Storia della Psicologia (M-STO/05)

85 Documenti
Gli studenti hanno condiviso 85 documenti in questo corso
Anno accademico: 2019/2020
Caricato da:
Studente anonimo
Questo documento è stato caricato da uno studente come te che ha optato per l'anonimità.
Università degli Studi di Milano-Bicocca

Commenti

accedi o registrati per pubblicare commenti.

Anteprima del testo

Introduzione (Alessandra Cerea)

Il nome di Georges Devereaux (1908-1985) è tradizionalmente legato a quello dell’etnopsichiatria, campo d’indagine sorto dall’incrocio delle riflessioni sulla dimensione socio-culturale del disagio psichico con quelle sulla dimensione psicologica delle culture. Fu il primo a fornire all’etnopsichiatria un quadro epistemologico che consentisse di pensarla come disciplina autonoma. Infatti, nel 1963: istituzionalizzazione del primo insegnamento di etnopsichiatria in Europa, affidato a Devereux (Parigi). In un’università votata all’interdisciplinarità e ad accogliere ricerche originali si crea lo spazio per accogliere le teorie di Devereux, fino a quel punto mai pienamente apprezzate. Dopo i primi studi di fisica e chimica alla Facoltà di Scienze della Sorbona, entra a far parte della prima generazione di etnologi allievi di Mauss, Rivet e Lèvy-Bruhl all’Institut d’Ethnologie. Inizia a viaggiare e a prender parte attivamente al suo campo di studi come vincitore di una borsa Rockefeller finalizzata a una missione scientifica presso la popolazione dei Sedang. Decide di diventare psicoanalista: intraprende la sua formazione in Kansas, considerata la Mecca della psicoanalisi negli Stati Uniti. Devereux si interessò alla psicoanalisi in quanto teoria psicologica e metodo d’indagine, e soltanto in secondo luogo in quanto mezzo terapeutico. “La psicoanalisi è prima di tutto un’epistemologia e una metodologia. Questo è il suo maggiore e più duraturo contributo alla scienza.’’ Contro la pretesa di universalità della psicoanalisi, a cui Devereux resterà sempre fedele, si scaglierà la critica culturalista secondo cui la psicoanalisi non sarebbe altro che una sociologia della borghesia viennese di inizio secolo. Devereux risponderà alle critiche appellandosi alla tesi dell’unità psichica dell’umanità. Secondo questa tesi le potenzialità, i contenuti, i processi della psiche hanno un ventaglio limitato di possibilità, per cui in qualsiasi cultura o luogo tutti gli uomini nelle medesime circostanze reagirebbero allo stesso modo. L’etnopsicoanalisi di Georges Devereux vuol essere anzitutto un metodo per combinare antropologia e psicoanalisi. Un fatto umano può dirsi completamente spiegato solo quando viene compreso sia all’interno del quadro di riferimento psicologico sia all’interno di quello socio-culturale. A dare impulso alla sua riflessione metodologica è la proposta del fisico Bohr là dove suggerisce di considerare il ‘’principio di complementarità’’ come lo schema concettuale più adatto ad affrontare e risolvere le contraddizioni insite nella duplice possibilità di descrizione dei fenomeni. Come per Bohr onde e particelle non appartengono alla natura della luce ma sono descrizioni di due proprietà di comportamento della luce, così per Devereux psichismo e cultura sono ‘’gettoni concettuali’’ costruiti su due modalità incompatibili di osservazioni del comportamento umano che consentono di isolare ciò che nella realtà è indissociabile e indistinto. Un’interpretazione completa della realtà umana può essere raggiunta solo attraverso un’epistemologia del ‘’doppio discorso’’: un’alternanza tra i due livelli, psicologico e culturale. Per aiutare i suoi studenti ad accettare ciò, Bohr mostrava la celebre immagine del vaso visibile anche come il profilo di due visi contrapposti. Suggeriva di guardare al fenomeno da spiegare allo stesso modo in cui il nostro occhio osserva la duplicità delle immagini raffigurate nell’esempio focalizzandosi su un solo elemento alla volta, non potendo coglierla simultaneamente. Per Devereux nello studio dell’uomo la rinuncia all’ideale della spiegazione unica permetterebbe di evitare ogni riduzionismo: accoglie quindi la collaborazione di psicologia e antropologia. Il suo obiettivo è ambizioso: fondare una scienza che pur nell’intento di cercare leggi riesca ad esprimere e rispettare la complessità dell’umano.

-- La rinuncia all’identità: una difesa contro l’annientamento (1964) rende magistralmente l’idea della ricchezza e complessità del pensiero di Devereux, pur essendo un articolo clinico rivolto ad un pubblico di psicoanalisti. Si alternano costantemente riflessione teorica e ricchezza di esempi che chiama ‘’osservazioni’’: corrisponde ad una precisa scelta di metodo i cui presupposti sono da ricercare nel principio del complementarismo di cui questo saggio offre un esempio ‘’invivo’’. Questo saggio fu letto da Devereux in occasione della sua ammissione come ‘’membro aderente’’ alla Sociètè Psychanalytique de Paris. Costituiva una sorta di conferenza inaugurale per cui sceglie il tema a lui più caro: il concetto di identità che esprime l’essenza stessa dell’umanità. Obbligato ai cambiamenti sin dalla giovanissima età, aveva sperimentato su sé stesso il sentimento della differenza, tanto culturale quanto individuale, il peso di essere l’altro. Ossessionato dalle differenze individuali ma contemporaneamente guidato dalla ricerca dei tratti comuni nell’umano, in quest’opera ha reso teoria il conflitto interiore di voler appartenere solo a sé stesso ma di essere contemporaneamente determinato da altro. L’identità (essenza stessa dell’umanità) non va confusa con l’identificabilità (nel suo essere funzionale a esprimere una unicità attualizzando il potenziale biologico dell’uomo. L’identità è un graduale processo creativo che prende avvio dalla prima infanzia, quando il bambino giunge a

rappresentarsi come un centro unitario che ingloba le diverse fonti delle percezioni in un’unica spazialità e che grazie alla memoria ricompone la percezione dei diversi sé nello scorrere del tempo. ‘’Comprendere, comprendersi ed essere compresi’’ procedono di pari passo e sono inscindibili l’uno dagli altri: è così che il bambino, grazie ad un’acrobazia cognitiva che gli consente di rappresentarsi al tempo stesso come soggetto e come oggetto, si separa dal mondo esterno a partire dalla differenza prodotta dall’incontro con l’identità dell’altro (madre), che allo stesso tempo permette l’incontro con il proprio sé. La prima tappa di questo processo avviene nell’istante in cui il bambino pronuncia il suo primo ‘’no’’. Devereux espone la tesi secondo cui la rinuncia a una progressiva individualizzazione dal mondo esterno costituisce il fulcro della malattia mentale, come meccanismo difensivo al fine di preservare l’esistenza, costruito sull’idea fantasmatica che affermare la propria identità risulterebbe fatale in quanto la esporrebbe all’annientamento. Questa strategia si manifesterebbe nel momento in cui i sintomi del paziente acquisiscono le vesti di resistenze che svelano come, in realtà, ogni sintomo sia un rifiuto a comprendere il mondo esterno per il fatto che ciò implicherebbe la possibilità di comprendersi e quella di essere compresi. Unità perfetta tra malattia e resistenze: ogni sintomo è una resistenza all’acquisizione di un’identità o alla sua scoperta e ogni resistenza è la massima manifestazione della psicosi o della nevrosi. Oltre che nei casi clinici, Devereux cerca le strategie umane contro l’annientamento in miti, riti, usanze, fiabe: cita Ulisse che dichiara di chiamarsi Nessuno per sfuggire a Polifemo, ci racconta dell’usanza di alcune tribù di utilizzare nomi convenzionali per proteggersi dal potere degli stregoni, ci ricorda il divieto degli israeliti di pronunciare il nome del loro dio. Di principio il malato è più comprensibile dell’individuo sano in quanto indifferenziato, e quindi più semplice. Il patologico è rivelatore di quei meccanismi universali di funzionamento dello psichismo e al tempo stesso della funzione generale della cultura in sé. Negativismo sociale: meccanismo che dà forma a ogni patologia attraverso ‘’modelli di cattiva condotta’’, è il rovescio delle maniere appropriate di percepire, valutare, vivere la realtà, attualizzando credenze e dogmi che contraddicono le strutture essenziali del gruppo e la sua stessa esistenza. In breve, ogni malato mentale è disadattato nella sua cultura ma non ogni disadattato nella propria cultura è un malato mentale. Una società che teme la singolarità dell’individuo e considera normale ‘’l’uomo medio statico e indifferenziato’’ corrisponde al genitore che punisce ogni tipo di manifestazione di spontaneità del figlio e interferisce ‘’cannibalicamente’’ nei processi naturali dello sviluppo attraverso cui il bambino giunge a rappresentare a se stesso la propria identità nello spazio e nel tempo. Entrambi, società e genitori, favorirebbero quell’idea che il possesso di un’identità sia un atto di ‘’ubris’’, un credere in sé oltre ciò che è consentito. L’autore stabilisce un confine di demarcazione tra società sane e patologiche: una società sana incoraggerà le sublimazioni che individualizzano l’essere umano, anziché le pressioni e le rimozioni che lo rendono indifferenziato. Pronuncerà parole amare sulla società occidentale, da lui definita schizofrenica. “Nella società moderna, la vera individualità è fonte di difficoltà anziché di soddisfazioni; lungi dall’essere ricompensata è penalizzata. Per questa ragione sono rari coloro che osano essere se stessi. Solo una revisione profonda della cultura occidentale e una ristrutturazione radicale della nostra società, modellate sui principi umani dalla ragione e dal buon senso, potranno impedire la catastrofe’’.

GEORGES DEVEREUX

LA RINUNCIA ALL’IDENTITA’:

una difesa contro l’annientamento

L’oggetto di questo studio è l’idea fantasmatica che possedere un’identità sia un vero e proprio atto di tracotanza che incita gli altri ad annientare questa identità. I pazienti più gravi rinunciano ad essa; i meno gravi si forgiano una falsa identità. Queste due strategie esprimono l’essenza stessa del disordine psichico e sono alla base di ogni resistenza, poiché lo scopo delle resistenze è appunto impedire la scoperta dell’autentica identità. Leggiamo dunque la resistenza come la massima manifestazione della nevrosi o della psicosi: quando i sintomi e i comportamenti assumono l’aspetto di resistenze, è proprio analizzandoli che ci avviciniamo all’essenza della nevrosi. La definizione dei concetti fondamentali sarà espressa all’interno di una prospettiva strettamente operazionale:

  1. Esistenza. L’operazione fondamentale e il risultato che ne consegue possono essere enunciati secondo la dichiarazione seguente: ‘’vedo qualcosa’’ (la cui identità mi è sconosciuta).

  2. Identità. L’operazione fondamentale e il risultato che consegue possono essere enunciati secondo la dichiarazione seguente: ‘’vedo Jean Dupont’’.

L’identità e la differenziazione sono il risultato della moltiplicazione di dati sempre più precisi su un oggetto o su un essere vivente: moltiplicando sempre più le nostre misurazioni possiamo benissimo riuscire ad attribuire una precisa individualità persino a un fiammifero o a un ago fabbricato in serie. In questi casi però non si tratta di una vera e propria identità funzionale, ma solo di una semplice ‘’identificabilità’’ che non porta a nulla. Resta comunque il fatto che in un uomo soprattutto il senso di un ‘’sé’’ integrato, il senso di una vera e propria individualità, è qualcosa di acquisito che si costituisce in modo graduale ed è esposto a innumerevoli peripezie e rischi. In più, questo senso di identità e di integrazione interna deve costruirsi su due livelli: nello spazio e nel tempo. L’identità nello spazio presuppone causalità spaziale, che postula la connessione delle cose nello spazio. Il fatto che il corpo appare come un oggetto compatto e dai contorni definiti, ci fa alle volte dimenticare che ciò non è sufficiente a considerarlo da subito come un corpo ben integrato. Possiamo distinguere tra organismi che sono incapaci di un’organizzazione coerente, organismi che non sono ancora capaci e altri che non lo sono più. (Es1: se punzecchiamo con della carta assorbente intrisa di brodo una metà del corpo di un polpo, solo quella metà apprenderà che essa non è un alimento, in quanto non possiede un sistema nervoso centrale ed è incapace di comportarsi come una totalità strutturata. Es2: in situazioni di stress un topo bianco può perdere il senso della connessione tra le parti del suo corpo. Alle soglie del parto, esso cerca di costruirsi il nido, e se non trova abbastanza materiale prenderà la sua coda e la deporrà con cura come se fosse un filo di paglia, e lo rifarà più volte. Es: un paziente era così angosciato durante l’adolescenza per le sue erezioni spontanee che il suo pene sembrava non far parte più della sua immagine corporea.) La formazione dell’identità di un bambino è un processo complesso, il suo primo atto di emancipazione è il momento in cui pronuncia la parola ‘’no’’ affermando la propria identità contra mundum. L’integrazione corporea del neonato è assai incompleta, sia per quanto riguarda gli arti sia i sensi: le reazioni del suo corpo ‘’come un tutto’’ non sono il prodotto di una coordinazione strutturata (si pensi ad un esercito), ma rappresentano delle reazioni di massa (si pensi ad una folla). Non ha la percezione della propria individualità né del proprio corpo come un tutto. Purtroppo l’educazione non incoraggia la formazione di un’identità, per molti aspetti un bambino non è nemmeno considerato come il possessore indiscusso del suo corpo. Per poter essere coscienti della propria continuità e invarianza nel tempo è necessario essere capaci di strutturare gli eventi che si susseguono nel tempo in una serie causale. La lunghezza della serie causale che l’osservatore è in grado di percepire varia in base all’intelligenza, al grado di sviluppo del sistema nervoso e all’intensità dell’impatto con il presente (negli istanti di stimolazione eccessiva perdiamo il senso del tempo, pericolo, dolore estremo, orgasmo). (Es: possiamo insegnare ad un topo bianco a tirare una leva per ottenere il cibo solo se il cibo appare immediatamente dopo l’azione. Es: il neonato percepisce una madre buona (che lo allatta) e una cattiva (che gli dà un buffetto) come se fossero distinte, perché sono fonti di stimoli apparentemente incompatibili e tra un i vari stimoli intercorre del tempo.) Forse un bambino nei primi mesi di vita non ha un senso reale della propria invarianza nel tempo, non coglie il suo ‘’io’’ semplicemente perché non possiede ancora un vero ‘’io’’. Freud ha dimostrato che i soggetti ai quali sia impedito sognare (svegliati quando cominciano a farlo) traggono poco profitto dal loro riposo, diventano ansiosi e nervosi. Devereux crede che una delle funzioni più importanti del sogno sia quello di assicurare la continuità dell’identità nel tempo: il sogno realizza una saldatura tra ieri e domani. Purtroppo, l’educazione ostacola la formazione di un senso di continuità nel tempo e di integrazione nello spazio. I genitori da una parte tendono a interferire con l’orario fisiologico del neonato che non è allattato quando ha fame, ma ad un orario prestabilito, dall’altra pretendono dal bambino un’obbedienza cieca, immediata, da automa (quando dovrebbero spiegare le cause di ciò che gli chiedono o dicono). Questo spiega perché alcuni pazienti sottoposti a un regime strettamente arbitrario durante l’infanzia spesso non ricordano i fatti accaduti quando erano piccoli, sia un’assenza totale del senso del vissuto dei fatti rievocabili. Questi pazienti sono anche quelli che ‘’non sognano mai’’, o che non riescono a creare associazioni.

Conclusione: data la tendenza dei genitori a punire ogni manifestazione di individualità dei figli, i pazienti crederanno che possedere un’individualità sia tracotante e punibile. La rinuncia o il mascheramento dell’identità sono delle difese contro la distruzione, poiché la conoscenza della identità svela la sua vulnerabilità. Il valore difensivo del mascheramento è esemplificato in un passo dell’Odissea: Menelao per riuscire a estorcere un oracolo a Proteo deve agguantarlo nonostante le sue metamorfosi. O si può pensare al divieto degli israeliti a pronunciare il nome di dio, o ancora, in alcune tribù si possiede un nome vero e uno pubblico, perché se il primo si conoscesse ci sarebbe il pericolo di essere maledetti.

Se questa fuga dall’identità costituisce il fulcro della nevrosi, allora il paziente guarirebbe solo se questa paura si manifestasse durante la seduta, che venga stimolato il timore principale del paziente in una maniera specificatamente atta ad aiutarlo. Sono state messe in evidenza certe somiglianze tra la tecnica psicoanalitica e la dialettica socratica: è rivelata al soggetto ogni sua evasione, scappatoia e contraddizione, lo scopo del dialogo è una comprensione di se stessi e degli altri. I pazienti adottano mascheramenti per evitare il confronto reale. (Es: un paziente dichiara che non appena lo psicoanalista dice qualcosa, egli prepara la sua confutazione, lo ascolta per contraddirlo. Es: lo stesso paziente afferma che detesta esprimersi a parole perché riconosce alla voce una realtà e un impegno che non si può manipolare.)

Conclusione: ogni resistenza serve a:

  1. impedire agli altri di scoprire l’identità del paziente;

  2. impedire al paziente di comprendere la propria identità;

  3. impedire al paziente di comprendere l’identità altrui.

CASO CLINICO

Essendo molto intelligente, il paziente M. conduce studi eccellenti ma nonostante questo diventa un modesto impiegato di un livello di poco superiore ad un fattorino. La madre, inasprita dalla mancanza del marito, vedeva M. come un mezzo che avrebbe soddisfatto il suo sogno di brillare in società grazie ad una ipotetica carriera perfetta. Ma avendo fallito nella carriera, a suo dire a causa della incapacità di comprendere ciò che legge, privava la madre della sua soddisfazione più grande. Identità nello spazio: la madre lo aveva trattato come un oggetto (‘’il bambino’’) e parlava dei suoi organi come se fossero dei pezzi smontati (‘’l’organo era poi indirizzato verso il wc’’). Il paziente, di conseguenza, era incapace di sentire di appartenersi e parlava della sua testa come ‘’la testa’’ e del suo pene come ‘’il pene’’. Credeva che le sue mani, i suoi piedi, e la sua testa fossero troppo piccoli, mentre il suo pene fosse normale. Alcune volte aveva la sensazione che il suo pene si trasformasse in una vagina, considerava il coito con la sua amante come un coito tra lesbiche e impiegava aggettivi ‘’maschile’’ e ‘’femminile’’ in modo molto arbitrario. Sembrava sia incapace di determinare la propria identità sessuale, sia risoluto a non lasciarsi ‘’fissare’’ perché la determinazione del suo sesso avrebbe potuto essere per lui disastrosa. Identità nel tempo: non ha ricordi d’infanzia, o sono comunque privi della qualità del vissuto. Sogna molto raramente e dimentica quasi sempre la parte più importante del sogno. Non possiede né senso della continuità nel tempo, né senso del vissuto nello spazio. Incapacità di attribuire un’identità agli elementi del mondo esterno, che si manifesta su due livelli:

  1. il dubbio (sostiene di non essere sicuro di niente)

  2. l’evasione (priva gli oggetti del loro senso)

Ha anche insistito sul fatto che non voleva imparare nulla dalla lettura né dall’insegnamento perché avrebbe comportato un’invasione del suo sé. Essere compreso comporta il rischio di essere distrutto. Per difendersi diventa incomprensibile e quindi non identificabile, al punto da essere privo di una reale identità. Smette di comprendere la realtà, smette di essere comprensibile.

Questo documento è stato utile?

Devereux - Rinuncia all'identità

Corso: Storia della Psicologia (M-STO/05)

85 Documenti
Gli studenti hanno condiviso 85 documenti in questo corso
Questo documento è stato utile?
Introduzione (Alessandra Cerea)
Il nome di Georges Devereaux (1908-1985) è tradizionalmente legato a quello dell’etnopsichiatria, campo d’indagine
sorto dall’incrocio delle riflessioni sulla dimensione socio-culturale del disagio psichico con quelle sulla dimensione
psicologica delle culture. Fu il primo a fornire all’etnopsichiatria un quadro epistemologico che consentisse di
pensarla come disciplina autonoma. Infatti, nel 1963: istituzionalizzazione del primo insegnamento di etnopsichiatria
in Europa, affidato a Devereux (Parigi). In un’università votata all’interdisciplinarità e ad accogliere ricerche originali
si crea lo spazio per accogliere le teorie di Devereux, fino a quel punto mai pienamente apprezzate. Dopo i primi studi
di fisica e chimica alla Facoltà di Scienze della Sorbona, entra a far parte della prima generazione di etnologi allievi di
Mauss, Rivet e Lèvy-Bruhl all’Institut d’Ethnologie. Inizia a viaggiare e a prender parte attivamente al suo campo di
studi come vincitore di una borsa Rockefeller finalizzata a una missione scientifica presso la popolazione dei Sedang.
Decide di diventare psicoanalista: intraprende la sua formazione in Kansas, considerata la Mecca della psicoanalisi
negli Stati Uniti.
Devereux si interessò alla psicoanalisi in quanto teoria psicologica e metodo d’indagine, e soltanto in secondo luogo in
quanto mezzo terapeutico.
“La psicoanalisi è prima di tutto un’epistemologia e una metodologia. Questo è il suo maggiore e più duraturo
contributo alla scienza.’
Contro la pretesa di universalità della psicoanalisi, a cui Devereux resterà sempre fedele, si scaglierà la critica
culturalista secondo cui la psicoanalisi non sarebbe altro che una sociologia della borghesia viennese di inizio secolo.
Devereux risponderà alle critiche appellandosi alla tesi dell’unità psichica dell’umanità. Secondo questa tesi le
potenzialità, i contenuti, i processi della psiche hanno un ventaglio limitato di possibilità, per cui in qualsiasi cultura o
luogo tutti gli uomini nelle medesime circostanze reagirebbero allo stesso modo.
L’etnopsicoanalisi di Georges Devereux vuol essere anzitutto un metodo per combinare antropologia e psicoanalisi.
Un fatto umano può dirsi completamente spiegato solo quando viene compreso sia all’interno del quadro di
riferimento psicologico sia all’interno di quello socio-culturale.
A dare impulso alla sua riflessione metodologica è la proposta del fisico Bohr là dove suggerisce di considerare il
‘’principio di complementarità come lo schema concettuale più adatto ad affrontare e risolvere le contraddizioni
insite nella duplice possibilità di descrizione dei fenomeni. Come per Bohr onde e particelle non appartengono alla
natura della luce ma sono descrizioni di due proprietà di comportamento della luce, così per Devereux psichismo e
cultura sono ‘’gettoni concettuali’ costruiti su due modalità incompatibili di osservazioni del comportamento umano
che consentono di isolare ciò che nella realtà è indissociabile e indistinto. Un’interpretazione completa della realtà
umana può essere raggiunta solo attraverso un’epistemologia del ‘’doppio discorso’’: un’alternanza tra i due livelli,
psicologico e culturale.
Per aiutare i suoi studenti ad accettare ciò, Bohr mostrava la celebre immagine del vaso visibile anche come il profilo
di due visi contrapposti. Suggeriva di guardare al fenomeno da spiegare allo stesso modo in cui il nostro occhio
osserva la duplicità delle immagini raffigurate nell’esempio focalizzandosi su un solo elemento alla volta, non potendo
coglierla simultaneamente. Per Devereux nello studio dell’uomo la rinuncia all’ideale della spiegazione unica
permetterebbe di evitare ogni riduzionismo: accoglie quindi la collaborazione di psicologia e antropologia.
Il suo obiettivo è ambizioso: fondare una scienza che pur nell’intento di cercare leggi riesca ad esprimere e rispettare
la complessità dell’umano.
-- La rinuncia all’identità: una difesa contro l’annientamento (1964) rende magistralmente l’idea della ricchezza e
complessità del pensiero di Devereux, pur essendo un articolo clinico rivolto ad un pubblico di psicoanalisti. Si
alternano costantemente riflessione teorica e ricchezza di esempi che chiama ‘’osservazioni’’: corrisponde ad una
precisa scelta di metodo i cui presupposti sono da ricercare nel principio del complementarismo di cui questo saggio
offre un esempio ‘’invivo’’.
Questo saggio fu letto da Devereux in occasione della sua ammissione come ‘’membro aderente’ alla Sociètè
Psychanalytique de Paris. Costituiva una sorta di conferenza inaugurale per cui sceglie il tema a lui più caro: il
concetto di identità che esprime l’essenza stessa dell’umanità.
Obbligato ai cambiamenti sin dalla giovanissima età, aveva sperimentato su sé stesso il sentimento della differenza,
tanto culturale quanto individuale, il peso di essere l’altro. Ossessionato dalle differenze individuali ma
contemporaneamente guidato dalla ricerca dei tratti comuni nell’umano, in quest’opera ha reso teoria il conflitto
interiore di voler appartenere solo a sé stesso ma di essere contemporaneamente determinato da altro. L’identi
(essenza stessa dell’umanità) non va confusa con l’identificabilità (nel suo essere funzionale a esprimere una unicità
attualizzando il potenziale biologico dell’uomo.
L’identità è un graduale processo creativo che prende avvio dalla prima infanzia, quando il bambino giunge a